Questa è la storia di Dorian Electra, artista statunitense simbolo della community Lgbtqia+, che della sperimentazione estetica, musicale e di stile ha fatto il suo lavoro, tanto da essere a Milano per sfilare alla Fashion week sulle passerelle di alcuni designer del calibro di Avavav e Annakiki, prima di suonare al Viperrr, uno dei party di punta delle serate milanesi. Cantante hyperpop, oggi si definisce pop-provocateur, e affonda le sue radici musicali nel genere nato a Londra nei primi anni Duemila, che Dorian ha contribuito a trasformare con gli album Flamboyant (2019) e My Agenda (2020). Il 6 ottobre, poi, sarà il momento della pubblicazione di Fanfare, un progetto musicale che con tredici brani affronta il tema del rapporto tra fan e personaggio pubblico, tra vita reale e finzione. Dissacrante e surrealista, ci racconta la bellezza di suonare in Italia dove sente un grande scambio con i suoi fan «forse proprio dalla maggiore oppressione che la comunità queer respira qui». Sono bastati pochi minuti per renderci conto che ci troviamo davanti a un genere musicale che in Italia non parla più sottovoce. O meglio, urla, si esaspera nei club underground delle città come vuole il genere, si diffonde rapido negli ambienti queer e non solo. Il merito è anche di voci fuori dal coro, come quella di Dorian Electra, che non si ferma e promette di portare il pop un gradino più su, senza mai smettere di sperimentare con l'arte e con il suo corpo, sempre in evoluzione.

dorian electra cover extrapinterest
Reece Owen
Styling: Luca Wowczyna, Hair: Yuho Kamo, Makeup: Jayde Coxon, Styling Assistant: Gia Parrella, Styling Assistant: Maya Majchrzak, Producer: Laura Mival, Bonnet and Jacket Fionn Lucaya

Preferisci che usi il them/they per l'intervista?

«Sì. In inglese abbiamo la fortuna di poter usare questi pronomi neutri: se non conosci il genere di una persona da noi si può usare il they/them come voce impersonale, ed è un supporto per chi non si identifica in un genere preciso. Sono felice che anche in altre culture si stia pensando a utilizzare termini neutri per rivolgersi a persone non binary».

Cosa significa per te rappresentare la comunità queer?

«È una grande emozione avere il sostegno di una vera e propria grande famiglia che mi permette di esprimermi per come sono e per come voglio in quel momento. È la fortuna di avere al mio fianco un gruppo fedele di persone, che si identificano e che mi permettono di essere chi voglio essere, senza sentirmi mai fuori posto nonostante io non appartenga a canoni circoscritti. Dall'altro lato ho il privilegio di essere di ispirazione per gli altri. Quando andavo alle elementari guardavo moltissimo agli artisti, i musicisti, i grandi idoli degli anni Novanta o i cantanti che ascoltava mio padre, ed erano quello che io volevo diventare. È molto importante avere dei punti di riferimento se non ti senti simile a nessuno dei bambini con cui cresci. Volevo diventare come i grandi musicisti, come David Bowie, Mick Jagger, artisti che i miei genitori mi hanno fatto conoscere».

Dal racconto della tua infanzia si percepisce un forte legame con loro.

«Assolutamente. È stato fondamentale avere il supporto dei miei genitori, loro che sono dei veri propri artisti in quello che fanno, persone di ampie vedute, molto aperte, sono divorziati ma sono ancora molto amici. Crescendo in Texas, a Houston, ho vissuto in un ambiente molto chiuso, ma sapevo che potevo contare sui miei professori, che sono stati fondamentali per me, e la mia famiglia, che mi sostiene da sempre. Con la musica voglio trasmettere le stesse sensazioni al pubblico che mi ascolta, l'idea che possano sentirsi in un luogo sicuro per la loro identità e completamente a proprio agio, proprio come quando il mondo intorno a me non mi faceva sentire conforme».

In che senso non ti sentivi conforme?

«Non mi è mai piaciuto stare con le bambine, giocare con le bambole, parlare di cose di cui si parlava tra ragazze. Allo stesso tempo non mi interessavano le macchinine, i giochi da bambino. Mi piaceva stare davanti alla tv e guardare i cartoni, mi affascinava mio papà e il suo senso dello stile, la musica che ascoltava come i Beatles, Led Zeppelin, o Alice Cooper, che è stato una grandissima ispirazione per me. Mi sentivo solo giovane, né bambino, né bambina, con un nome androgino come Dorian. Poi al liceo ho esplorato il mio aspetto più femminile, uscivo con persone con cui avevo delle storie, chiedendomi "È questo che dovrei fare?". Allo stesso tempo mi interessava molto anche il mio lato maschile. Ma è stato quando ho iniziato a fare musica che ho lavorato davvero sulla mia identità, frequentando i negozi vintage, i mercatini dell'usato, dove compravo i look con cui facevo video stupidi con i miei amici. Ero a mio agio con il termine "transgender", perché ho una persona transgender nella mia famiglia. Poi nel 2016 ho iniziato a sentire l'uso di they/them, che inizialmente mi sembrava molto strano, alienante, ed era lo stesso periodo in cui ho iniziato a fare arte drag, a vestirmi da uomo, a fare presentazioni e show».

Cosa ti appartiene di più di questo mondo?

«Il concetto di fluidità, il fatto che con il genere si possa giocare, è divertente. È un mondo che si può sperimentare con ogni forma d'arte, si può essere trasgressivi e questo è l'aspetto più divertente. Mi piace molto poter ribaltare dei canoni prestabiliti che a pensarci fanno sorridere: è buffo che in quanto uomo ci si debba per forza comportare in un certo modo, e vestire per essere virile, mentre le donne si devono vestire in una maniera precisa. E io mi chiedo perché non ribaltare questi parametri creando una certa confusione, è molto bello rompere i confini per esprimere se stessi. In questo la musica è stata una guida, perché attraverso gli idoli di quando ero giovane ho capito che potevo ribaltare gli schemi e anche oggi mi piace chi osa».

Di quali artisti parli?

«Seguo Yves Tumor, mi piace moltissimo quello che sta facendo, tutto il suo lavoro per la moda, l'energia di portare in auge lo stile glam-rock con uno stile nuovo, moderno, ma che non si dimentica del passato. Mio papà, che amava il rock più classico, oggi è un suo grande fan e io sono così felice che si apprezzato anche da chi non fa parte della mia generazione. Ma anche Alice Cooper, come dicevo prima, è uno dei miei idoli di sempre, o Iggy Pop, che sei mesi fa ho visto in concerto, è incredibile quando si butta per terra e trasmette l'energia della vera rockstar».

Proprio sul rapporto fan-star hai impostato l'intero album Fanfare, cosa ti affascina di questo fenomeno?

«Il mondo è sempre stato ossessionato da diverse forme di celebrità, fin dall'antichità, come greci e romani con le divinità, poi ci sono i miti e le leggende della Bibbia che ancora oggi sono parte del nostro immaginario comune. Fino a Marylin Monroe e poi l'era di internet dove l'utente si sente in diritto di scrivere qualsiasi cosa al proprio idolo, di bombardarlo di Tweet, vivendo così un rapporto "para-social" per cui si sentono di conoscere davvero la persona che ammirano come fan basandosi solo su ciò che postano online e sui social media. E in alcuni casi la fandom diventa vera e propria ossessione, una connessione che è solo unilaterale ma che loro considerano condivisa. Emergono molti aspetti tossici del fenomeno. Allo stesso tempo i social sono una risorsa perché permettono alle persone di creare una community, di conoscere persone che hanno le stesse passioni. E l'ho sperimentato anche io quando ero teenager e mi ha permesso di sperimentare, di fare la mia musica. Ho visto che nella politica degli ultimi anni i fan sono arrivati anche lì: è stato chiaro con Trump, che si è trasformato in una vera e propria star con sostenitori che sono diventati suoi primi fan, e lui stesso ha usato i social per costruire la base del suo consenso. I social sono diventati un grandissimo reality show: questo ha cambiato la politica, l'intrattenimento, l'arte. Il rapporto può diventare malato, come nel caso di Doja Cat con i suoi fan, che l'hanno attaccata e a cui lei ha risposto sostenendo la sua linea, ribellandosi al controllo che pretendevano di avere su di lei inscatolandola in certi schemi. O pensiamo a Britney Spears, trattata come proprietà di tutti. Le persone si stanno finalmente rendendo conto che i nuovi media sono diventati tossici e quindi anche il nostro rapporto con gli idoli che ammiriamo».

Qual è il potere dell'arte pop? È capace di cambiare il mondo?

«La musica pop, l'arte, ogni forma di espressione diffusa ha il potere di avvicinare i concetti nuovi al mainstream e di allargare i confini delle aspettative. Lo abbiamo visto nell'accettare corpi non conformi, individui queer, con estetiche underground e gusti nuovi, rompendo le norme e le tradizioni. Billie Eilish è stata un nuovo esempio per tanti ragazze e ragazzi, che oggi vestono con magliette larghe, portano i capelli colorati, scarpe larghe da skater. È molto bello vedere che questi giovani hanno un riferimento, è importante a quell'età, soprattutto se vieni da un contesto conservatore».

E il messaggio che vuoi trasmettere con il tuo lavoro qual è?

«Chi mi ascolta si deve sentire orgoglioso di essere chi vuole, di essere queer, di essere diverso. Ma è anche un modo per me per insegnare qualcosa di nuovo al pubblico, unendo antico e moderno, per questo nei miei album si ritrovano antichi canti gregoriani, o episodi biblici come Sodoma e Gomorra (a cui si ispira l'omonima canzone del suo ultimo album Fanfare), o gusti rinascimentali che contemplano una forte presenza religiosa e della natura. Prendere questi aspetti tradizionali e dare loro un tocco moderno mi diverte e può essere d'interesse per chi mi ascolta. In un contesto queer questo ha una doppia valenza, perché porta alla luce che alcune pratiche sono sempre esistite. E pensare che il mito di Sodoma e Gomorra, due città rase al suolo perché invase dal Peccato, sia stato la ragione per cui la comunità queer è stata vessata nei secoli, mentre oggi rivive in una canzone pop, è incredibile. Per me questo è potente perché ci balliamo su, orgogliosi di chi siamo».

Il dualismo antico e moderno lo vediamo anche nella tua estetica.

«Ho studiato filosofia, non ho mai studiato musica o regia, ma ho imparato a farlo anche in coppia con il mio collaboratore Weston Allen con cui lavoro dal 2013. Ma la storia della musica la conosco, mia mamma mi faceva ascoltare la musica classica mentre mi portava a scuola. Penso che l'esercizio di sovrapporre antico e moderno sia qualcosa che abbiamo sempre fatto, come essere umani, abbiamo la tendenza a comparare, anche sbagliando, epoche diverse, rischiando di creare narrative fuorvianti per supportare le proprie ideologie politiche. Ma può essere anche un esercizio positivo, si può tornare indietro nella storia in modo costruttivo. Oggi nel mondo queer è di moda utilizzare riferimenti biblici dall'arte e musica cristiana perché molte persone si sono sentite oppresse da questi schemi, ed è una bella metafora della vita imparare a trasformare un trauma della propria vita in un momento propositivo».

Mi piacerebbe chiudere con una domanda che sorge spontanea ascoltando Fanfare: se dovessi scegliere tra vedere ed essere visti, cosa sceglieresti?

«Domanda difficile. Essere visti può far sentire molto soli perché non hai percezione di quante persone ti vedono, e non hai nessuno con cui condividerlo. Allo stesso tempo vedere e non essere visti apre a un altro scenario in cui regna la solitudine, perché sei invisibile. È come parlare senza sentire, o scegliere se sentire senza parlare in una conversazione, non riesco a scegliere. ».

Goditi Milano allora, è la tua prima volta?

«La prima volta è stata due anni fa, quando ho avuto un momento di pausa dal tour, e ho suonato all'Apollo e poi al Fabrique con Charli XCX nel 2019. In questi giorni corro ovunque, è impossibile prendere taxi con il diluvio e tutta la gente che c'è in giro per la Fashion Week. Però nemmeno questo mi ferma dal vestirmi in modo eccentrico! Per esempio oggi ero sul bus in mezzo alla folla con questo addosso (va in un'altra stanza e torna con un cappotto blu elettrico coperto di tulle, nda). Ma mi piace troppo».

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