«Si crede che le persone nere nascano sapendo cos'è il razzismo», mi dice dall'altra parte dello schermo Nogaye Ndiaye, «ma la verità, come spiega bene l'autrice Otegha Uwagba, è che lo scopriamo anche noi gradualmente, sulla nostra pelle, dalla nostra esperienza». Dal 2020 Ndiaye gestisce su Instagram la pagina @leregoledeldirittoperfetto: «All'inizio parlavo di metodo di studio e del senso di fallimento di noi studenti, poi ho ampliato a tematiche di attualità», mi spiega. Solo dopo, sullo stesso profilo, ha iniziato a parlare di razzismo e della sua esperienza come ragazza nera italiana. «Ho iniziato a unire quello che studiavo a Giurisprudenza a quello che leggevo nei libri antirazzisti femministi». Oggi questo lavoro di divulgazione e attivismo si ritrova nel suo nuovo libro Fortunatamente Nera: il risveglio di una mente colonizzata che l'autrice presenterà il 25 novembre ospite all'Eredità delle Donne di Firenze. Ma, tra le pagine, c'è molto di più: Ndiaye ripercorre il suo viaggio di rinascita che l'ha portata a ritrovare l'orgoglio delle sue origini smantellando le sovrastrutture razziste che dominano la nostra società.

instagramView full post on Instagram

Ci racconti un po’ com’è iniziato tutto?

«Quando sono stata in Senegal per la prima volta, mi hanno travolta moltissime emozioni. Dato che ho sempre scritto molto, ho preso un quaderno per raccontare ogni singolo giorno che cosa facevo, come mi sentivo. Nel libro c’è quello che ho scritto lì e anche quello che ho imparato e prodotto a livello di contenuti negli ultimi anni sulla mia pagina @leregoledeldirittoperfetto. Ho messo insieme le due cose perché non volevo parlare solo di razzismo, ma nemmeno limitarmi al mio percorso personale: volevo essere in grado di raccontare la mia storia dando alle persone degli strumenti per capirla».

Come sei arrivata a scegliere la struttura? Le due parti in cui è diviso il libro sono molto diverse tra loro, ma si parlano perfettamente…

«Ho fatto subito una lista dettagliata perché sono della Vergine [ride]. La cosa più difficile è stata mescolare la componente saggistica con quella autobiografica. Inizialmente la prima parte era un vero e proprio saggio in cui parlavo di razzismo e la seconda era quasi un romanzo. Con la mia editor abbiamo deciso di equilibrarle in modo che entrambe avessero l’elemento saggistico e quello autobiografico. Mi ha detto “E se tenessimo le due parti e le chiamassimo Parte uno e Parte due?”. Io ho detto “Sì, però chiamiamole 'Noghina' il nome con cui mi facevo chiamare anni fa sperando che suonasse più italiano e 'Nogaye' il mio nome, che ora ho ricominciato a usare”. Il libro spiega proprio questo passaggio che è stato quasi come togliersi una maschera e ricominciare una nuova vita fatta di sincerità con me stessa».

Dicci qualcosa di più del titolo

«Tutti mi dicevano “A un certo punto il titolo arriverà”, ma non arrivava niente. Poi mi sono chiesta “Da dove è iniziato tutto?”. Il mio percorso è iniziato dal ritrovamento di una mia poesia che ho scelto di leggere online sulla mia pagina Instagram. Si intitolava “Sfortunatamente nera” e ho pensato “Io non mi sento più così”. Non è stato facile aprirsi e parlare della mia vita, temevo che diventasse l'ennesimo libro strappalacrime della povera nera discriminata. Non posso cancellare il razzismo dalla mia vita perché è stata una costante, ma sono qui per dire che arrivi a un certo punto in cui tu ti senti veramente fortunatamente nera».

«Sono qui per dire che arrivi a un certo punto in cui tu ti senti veramente fortunatamente nera»

Cosa ha significato iniziare a parlare della tua esperienza su Instagram?

«C'è stata proprio un'evoluzione da persona che guardava passivamente un mondo di cui voleva fare parte ma pensava di non essere in grado, che nessuno avesse bisogno di sentire la sua opinione. Invece, quando cominci a parlare, a un certo punto qualcuno ti ascolta e io ho trovato tante persone che facevano quello che facevo io: ci sono tantissime menti attive in questo momento in Italia, persone di seconda generazione che hanno detto basta e preso la parola. Nel libro ho inserito una frase di Michell C Clark che dice “Mando amore a tutte le persone che stanno cercando di riscoprire la propria voce dopo che la vita ha fatto credere loro che il silenzio fosse più sicuro”».

Tramite i social, quindi, hai trovato una vera e propria comunità...

«È stato indescrivibile. Venendo da Trezzano ho sempre vissuto circondata da persone bianche, a parte la mia famiglia. Ci fanno credere che siamo soli ma in realtà siamo tantissimi. È stato bello trovare altre persone razzializzate con cui parlare senza dover dare spiegazioni perché ci capiamo al volo. Sono le persone con cui vado alle manifestazioni, quelle con cui organizzo gli eventi, sono quelle che invito a casa per mangiare, per stare insieme. Tra i detti senegalesi che ho inserito nel libro, il mio preferito dice “Il rimedio dell'essere umano è l'essere umano” e infatti i cambiamenti, le rivoluzioni, qualsiasi cosa si fa con le persone. Cerchiamo sempre di divertirci e, dopo i momenti di serietà, magari andiamo a ballare. Loro mi hanno insegnato che in un Paese razzista essere felici e divertirsi è un atto di resistenza perché ti fa uscire da quella posizione di subalternità che la società vuole che tu abbia».

C’è un capitolo che parla delle micro aggressioni. Perché sono così difficili da identificare come razzismo?

«L'ostilità più grande sulla mia pagina l'ho vista proprio quando ho cominciato a parlare di micro aggressioni. È più facile credere al razzismo nelle sue manifestazioni più violente, ma a farmi più soffrire non sono stati i calci, i pugni, gli insulti, ma il trattamento diverso che le persone mi riservavano quotidianamente. Sulla mia pagina ho una rubrica che si chiama Universo Parallelo dove inverto i ruoli facendo capire come sarebbe se le persone bianche subissero quello che ogni giorno vivono le persone razzializzate, da chi ci tocca i capelli senza consenso a chi ci chiede di chiamarci con un nome più facile da pronunciare. Funziona, ma non dovrebbe essere necessario ribaltare le prospettive».

Racconti che il viaggio di rinascita personale è passato attraverso la decostruzione del tuo razzismo interiorizzato…

«Senza un percorso di decolonizzazione della mia mente, in Senegal non ci sarei mai andata. Noi persone discriminate per sopravvivenza cerchiamo di cancellare il più possibile la nostra identità: ti metti la parrucca con i capelli lisci, esci con tutti amici bianchi, perché così è più difficile che tu possa subire un'aggressione razzista, perché il loro privilegio ti copre. Io ho smesso di partecipare alle feste senegalesi, non volevo più mangiare senegalese, volevo che tutti mi vedessero come italiana. Questo succede perché interiorizzi la mentalità per cui quel Paese è povero, ci sono le guerre e le malattie. È il Paese da cui vengono i migranti e la società ci insegna a distinguerci bene da loro, a mettere la maschera della bianchezza per poter dire “Io sono quella buona, non sono come loro”. Una cosa di una violenza atroce. Per questo voglio che questo libro sia per le persone come me, perché lo leggano, si risveglino e riconoscano la fortuna che abbiamo nell'essere quello che siamo con l'orgoglio delle nostre radici».

Per te il razzismo interiorizzato ha avuto anche una componente di genere?

«Decisamente. Prima, in quanto donna, volevo rientrare nei canoni di perfezione eurocentrica, invece adesso rispondo alle interviste con i capelli naturali, non indosso più le extension, le mie sorelle razzializzate mi hanno insegnato come prendermi cura dei miei capelli. Sono cose che sembrano banali, ma hanno un'importanza storica perché il capello afro è sempre stato visto come brutto, disordinato, non elegante. Mi sono laureata con le treccine, ora farò le presentazioni con i miei capelli naturali e con mia mamma lanceremo un negozio online di vestiti africani che adesso indosso spesso. Sono tutti messaggi: messaggi per le ragazzine e per le altre donne che pensano che per essere belle debbano per forza assomigliare ai canoni eurocentrici».

Come osservi nel libro, in Italia conosciamo poco il nostro passato coloniale e non abbiamo ancora intrapreso un processo collettivo per decostruire il razzismo sistemico nel nostro Paese, hai delle letture da consigliare?

«Ci sono letture fondamentali di matrice anglosassone come Frantz Fanon o Angela Davis, Poi, per entrare nello specifico nella questione italiana, quello che mi viene da consigliare sono i libri di Igiaba Scego, che è una scrittrice afro-italiana che parla spesso del danno delle colonie italiane in Eritrea, in Somalia ed Etiopia. E poi c'è un libro molto bello di Djarah Kan Ladri di denti che parla del passato coloniale italiano e di come spesso non se ne parli. Per il resto internet è uno strumento potentissimo ed è importante non pensare che basti leggere un libro per pensare di aver decostruito il proprio razzismo. Bisogna scavare a fondo».