Ho incontrato Sara Marzullo la prima volta una sera di pioggia a Milano alla presentazione del suo libro Sad Girl. La ragazza come teoria: la libreria era gremita di ragazze, tutte con in mano il volume violetto. A qualche giorno di distanza le ho parlato su Zoom: a Milano continua a piovere e io, nel mezzo, ho letto i sei saggi che compongono il suo libro. Mi pare di essere uscita da una sessione di psicoterapia particolarmente intensa, anzi, nel vedere i post e le condivisioni su Instagram delle sue lettrici, ho la sensazione che siamo tutte in qualche modo uscite dalla stessa seduta.

Dopo che il 2023 è stato definito l'anno delle ragazze, dopo Barbie, dopo l'estate di Taylor Swift, è arrivato il momento di porci alcune domande che ci riguardano. Siamo state tutte ragazze e siamo state tutte, almeno una volta, “ragazze tristi”, ma forse non ci siamo fermate a riflettere sugli schemi che abbiamo riprodotto, nel tentativo di capirci e farci capire, e che ci hanno inconsapevolmente formate. Marzullo, giornalista culturale e traduttrice, parte proprio dalla sad girl, la ragazza che lei stessa è stata, quella che legge Sylvia Plath, che condivide poesie su Tumblr, che sente di avere qualcosa di profondamente comune alle sorelle Lisbon, le Vergini Suicide di Jeffrey Eugenides e Sofia Coppola, per via di una malinconia insondabile che può essere assurta a sensibilità fuori dal comune. Se la sad girl finisce per essere una performance legata a una certa estetica e cultura, forse è perché la condizione di ragazza è sospesa tra lo sguardo altrui e l’auto-monitoraggio costante, tra la ricerca del proprio desiderio e il continuo compromesso con una società che mercifica l’adolescenza femminile, quella di Britney Spears o la nostra. Cosa c'è dietro le quinte della mascherata? Forse la risposta è legata al perché, nonostante i dolori esistenziali, i cuori infranti, i desideri altrui sui nostri corpi, lasciare andare la ragazza che siamo state sembra, a tratti, quasi impossibile.

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Nei saggi parti dalla tua esperienza come ragazza: oggi il personale può ancora essere politico o scrivere e parlare di sé è ormai solo una forma di self help?

«Io sono una persona molto riservata e schiva, ma mi sembrava importante utilizzare la prima persona. Non penso che la mia esperienza sia speciale o emblematica, ma è proprio per questo che mi interessava, per capire come certe cose che ho sentito facessero parte di un sentire collettivo, legato a un certo tipo di educazione. Mi permetteva di mettere in scena il modo in cui funzionano le narrazioni e mi obbligava a rimanere il più possibile nell'ambiguità. Io penso sempre che il personale sia politico e oggi vedo anche un ritorno di alcune modalità di autocoscienza degli anni 60 e 70. Secondo me c'è molto il desiderio di politicizzare il personale e credo che insieme troveremo dei modi per farlo. In questo, penso che il lavoro che ha fatto in Italia Non Una di Meno negli ultimi otto anni sia stato fondamentale».

I primi due saggi del tuo libro sono dedicati alla "ragazza triste" del titolo, che tu leghi a un certo filone letterario e culturale, e alla “ragazza perduta”, la ragazza che per qualche ragione scompare e riappare, un po’ come Laura Palmer, ma anche come quelle ragazze che per giorni non rispondono e poi si rifanno vive con un audio alle quattro di notte.

«Sì, sono i primi due saggi che mi sono venuti in mente quando ho deciso di scrivere il libro. Mi era molto chiaro che volevo indagare queste due figure che mi sembravano stranamente speculari. Da una parte avevo proprio l'impressione che molto spesso gli uomini fossero totalmente confusi da queste ragazze che sembravano apparire, sparire nel nulla e che li mandavano completamente in confusione. All'inizio cercavo di dare ai miei amici delle risposte, poi invece ho cercato di capire meglio queste figure femminili perché mi sembravano tornare spesso sia nel cinema che nella letteratura, quasi sempre, però, raccontate da uno sguardo maschile».

sad girl intervista a sara marzullopinterest
Paramount Classics
Il giardino delle vergini suicide, Sofia Coppola 1999

Ci dici qualcosa in più su queste ragazze?

«Sono figure molto attraenti, anche a uno sguardo femminile, perché attirano l'attenzione, fanno impazzire gli uomini. Sembrano sempre essere pervase da una grande tristezza, dal desiderio di essere altrove. D'altra parte però sono anche spinte in un altrove: gli uomini dichiarano a queste ragazze amore imperituro, però a costo della loro scomparsa. Mi ricordo che, soprattutto quando era uscito Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, mi aveva molto colpito il personaggio di Sasha che ha proprio l'aspetto della ragazza perduta: questa ragazza molto bella che scompare e fa un po' ammattire tutti. Però poi nel libro lei ha un futuro, vediamo che si sposa, addirittura uno dei racconti è scritto da uno dei suoi figli. Quindi queste ragazze si potevano salvare! Per questo mi interessava capire perché invece, nelle narrazioni scritte da un punto di vista maschile, fosse molto importante che queste non tornassero mai. E mi sembrava che ci fosse una spiegazione legata più che altro a ciò di cui il maschile aveva bisogno».

Pensando alla tristezza femminile, sembra sempre sul punto di trasformarsi in una performance: noi ragazze con il mascara colato, noi che balliamo da sole e disperate in biancheria intima con la casa in disordine, noi che ci scattiamo un selfie con gli occhi rossi come Bella Hadid. Come mai?

«Secondo me c'è una banale fascinazione verso delle figure che sembrano così intense soprattutto in un periodo in cui poi quell'intensità la provi. Sono figure molto attraenti e spesso nelle rappresentazioni che abbiamo sono anche belle ragazze oltre che dotate di questa sensibilità che sembra suggerire che non appartengano a questo mondo e che abbiano dei livelli di conoscenza più alti. E poi impariamo che il femminile è molto legato all'idea di apparire e avere un effetto: la lettura lacaniana del genere dice che la femminilità è una mascherata. Anche Susan Sontag, parlando appunto della femminilità, dice che è una sorta di teatro e quindi secondo me c'è proprio un apprendistato rispetto a quelli che sono dei caratteri ben definiti all'interno delle possibilità del femminile».

C’è modo, secondo te, di raccontare il femminile fuori da queste maschere? Chi è riuscito a farlo?

«Chiaramente sì. Alcune figure ricorrono di più nella cultura perché sono storie più accettate banalmente, ma credo che ci sia la possibilità di raccontare le figure femminili in quanto esseri umani. Secondo me, storie molto interessanti sono quelle che riescono a raccontare il passaggio tra certe forme di giovinezza e certe forme di maturità. Penso ai personaggi di Rachel Cusk o di Sheila Heti, o anche a Sara Manguso. Nei loro libri hanno tutte raccontato della perdita di un io che si osserva e si monitora così tanto. Anche i personaggi di Veronica Raimo a me fanno ridere molto perché sono sempre molto intensi, ma allo stesso tempo non si prendono mai sul serio».

sad girl intervista a sara marzullopinterest
netflix
La regina degli scacchi

Pensando alla femminilità come spettacolo, che ruolo gioca lo sguardo altrui nella costruzione della condizione di ragazza? E lo sguardo della ragazza su di sé?

«Il femminile è sempre stato storicamente sottoposto allo sguardo altrui, perché doveva trovare un modo per sopravvivere, ad esempio attraverso il matrimonio. Per questo da un punto di vista culturale siamo molto abituate a essere consapevoli del nostro effetto sul mondo. In più spesso viviamo situazioni di maggiore pericolo e tendiamo a essere più consapevoli di noi stesse e del nostro corpo. In un'epoca in cui dobbiamo essere molto coscienti dell'aspetto che abbiamo, della posizione che occupiamo e dell'effetto che facciamo, in qualsiasi campo lavorativo, l’abitudine a monitorarsi può dare dei grandi vantaggi. Può portare a essere molto consapevoli degli scambi che abbiamo e anche a saperli manovrare meglio. Chiaramente, però, fa anche sì che siamo sempre soggette a questo tipo di sguardo e a volte è importante riconoscere come questo monitoraggio che ci è indotto e che ci aiuta tende a lasciarci meno libere di interagire senza questo filtro con gli altri o con noi stesse».

Sguardo è anche desiderio. Le ragazze sono spesso oggetto di desiderio, ma oggi sembra che sia anche chiesto loro di avere molto chiaro ciò che vogliono. Penso ai video su TikTok dove le vediamo “manifestare” quello che desiderano o fare liste sui loro diari per diventare la versione migliore di loro stesse.

«Oggi la responsabilità del nostro futuro, della nostra felicità, della nostra carriera è completamente schiacciata su di noi. Ma allo stesso tempo siamo anche consapevoli che viviamo in una società e ciò che noi desideriamo è soggetto non soltanto agli altri, ma alle strutture della società in cui siamo. C'è una grande sopravvalutazione del desiderio personale, della forza di volontà personale».

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Instagram / @bellahadid
Bella Hadid in un selfie su Instagram

Un po’ succede lo stesso anche con il sesso?

«Tutto il discorso che si è fatto negli ultimi sei, sette anni su quelle che sono le aspettative femminili rispetto alla sessualità e la coscienza del fatto che possiamo chiedere di più è chiaramente molto positivo. Fa sì che un’area così complessa e così conflittuale come quella del desiderio diventi uno spazio anche di incontro e scoperta. Poi io mi rifaccio molto al lavoro di Katherine Angel e al suo libro Il sesso che verrà per quanto riguarda il fatto che tutta questa attenzione ad essere al sicuro ha fatto anche sì che abbiamo un po’ abbassato l'asticella a volte. Il sesso deve essere consensuale, ok, però il fatto che sia consensuale non ci dice che sia bello o positivo».

Mi viene in mente un film di cui di recente si è parlato parecchio, How to have sex. C’è una scena in cui alla protagonista viene chiesto il consenso, ma poi il rapporto sessuale in sé ha poco di positivo.

«Esatto, e non solo: così lei viene messa nella posizione di chi ha detto di sì e quindi non si sente più nella posizione di poter pretendere qualcosa dall'altra persona».

Tu scrivi «C'è qualcosa di particolarmente voluttuoso nel lasciarsi dominare dalla volontà altrui, perché solleva da ogni responsabilità». Questa può essere una reazione proprio a una società che ci chiede di sapere sempre esattamente cosa vogliamo e di trovare da sole i modi per ottenerlo?

«Sì, secondo me di fronte a questa richiesta molto personale che non mette mai in scena risorse collettive c’è la sensazione che da soli non si riesca a fare niente. Mi sembra che la tensione sia sempre o verso questa resilienza, questa capacità di affrontare o, dall’altra parte, verso questa sorta di impotenza e apatia, questa tristezza che va quasi verso la depressione, verso l'abulia. Mi pare invece che non ci sia mai la rabbia, che non ci siano mai delle emozioni molto più dirompenti e che chiedono qualcosa al mondo».