Tempo fa era diventato virale un TikTok che distingueva le diverse generazioni sulla base del loro approccio ai sonnellini: i Boomer sostengono che per loro non siano necessari, poi prendono un libro, accendono la Tv e li ritrovi casualmente addormentati sul divano; per la Gen X sono un segno di debolezza, accettabili solo se proprio sei in hangover; per i Millennial la durata massima è di 20 minuti, altrimenti si svegliano di umore nero senza più sapere dove si trovano e che anno è. Infine c'è la Gen Z: «Loro vedono la vita come qualcosa che interrompe i loro riposini» sostiene l'autore del video, il comico Jake Lambert, e non ha tutti i torti. Stiamo parlando della generazione del quiet quitting, del downshifting, della great resignation e dei lazy girl job. Il brand di lenzuola americano Plushbeds ha interpellato 1.000 persone e scoperto che l'80% degli esponenti della Gen Z fa sonnellini a lavoro: la percentuale più alta rispetto alle altre generazioni (i Millennial, ad esempio, sono il 70%).

Secondo Virginia Cafaro, autrice di Manifesto Pisolini. Guida femminista sul diritto al riposo, i pisolini (il nome è di origine toscana) hanno un carattere sovversivo: sono una cosa ben diversa dalle 8 ore di sonno consentite e accettate dalla società come corrispettivo uguale e contrario delle 8 lavorative, e nulla hanno a che vedere con le power-nap, inventate di recente (con tanto di postazioni ad hoc negli uffici) per ricaricarsi allo scopo di essere più produttivi. I pisolini sono frammenti di rivoluzione, minuti rubati all'agenda fitta di impegni, sottratti con orgoglio ai sensi di colpa. Chissà come se la passa la ragazza che a novembre piangeva su TikTok dicendo che il lavoro dalle 9 alle 17 non le lasciava nemmeno più il tempo di cucinare o fare sport. E noi come ce la passiamo, in bilico tra la lavatrice da stendere e le application da fare quando timbriamo il cartellino, per cercare un posto migliore? Nel dubbio scrolliamo qualche reel su Instagram e prendiamo l'integratore di melatonina. Ricerchiamo il tanto pubblicizzato self care mentre veniamo inseguiti dagli algoritmi, parliamo di settimana lavorativa breve, ma nel tempo libero siamo spinti a monetizzare anche la passione per l'uncinetto. Ovvio allora che, la sera, procrastiniamo il momento di andare a dormire per riappropriarci di un tempo che sia davvero nostro (ha un nome, si chiama revenge bedtime procrastination), ovvio che sogniamo di dormire per un anno intero come la protagonista de Il mio anno di riposo e oblio senza doverci preoccupare delle bollette. Riposare è diventato un privilegio nelle mani di pochi, agli altri - soprattutto a chi ha due lavori, entrambi precari e una famiglia da accudire - resta il burnout. Manifesto Pisolini che, oltre ad avere un titolo meraviglioso, è denso di preziose informazioni e riflessioni, ci aiuta a rimettere insieme i pezzi, ad arrabbiarci con un sistema iniquo, ma senza rovinarci il sonno, piuttosto spingendoci ad allenare sguardo e pensiero per creare spazi di riposo nelle nostre vite, e donare sonnellini e ozio (quello vero) a noi e agli altri.

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Instagram / @jlo
Jennifer Lopez

Sembra che le nuove generazioni stiano mettendo in dubbio la canonica divisione lavoro/riposo, è davvero così?

«Sicuramente c'è una una presa di coscienza su quelli che sono i tempi lavorativi canonici rispetto a prima. Le nuove generazioni - parlo della Gen Z - sono un po’ più a conoscenza dei propri diritti e quindi hanno un approccio lavorativo che è "io faccio le mie 8 ore, faccio solo quello che è contrattualizzato": il cosiddetto “quiet quitting”. Non è nulla di rivoluzionari però, già che se ne parli, è un indice di maggiore consapevolezza. Questo tuttavia non significa che poi il riposo sia riposo vero e proprio perché appunto c'è il tempo attivo e passivo sulle piattaforme social che è ugualmente lavoro, ci sono magari i lavoretti che le persone svolgono per guadagnare di più o comunque c'è sempre una mente impegnata nel nel cercare di produrre, avere di più dalla vita».

Si ricerca costantemente il tempo libero ma, alla fine, non ci si riposa mai?

«C'è una nuova concezione di riposo. Pensiamo al fatto che il telefono è un'estensione di noi: ci è utile, ci serve lavorativamente e per rimanere in contatto con le persone, però ci apre una finestra sul mondo disponibile 24 ore su 24. Questo, tra peer pressure e FOMO di non essere in linea con l'ultimo post su Instagram, può creare un vortice in cui entriamo. Le nuove generazioni tendono ad entrarci, rimanerci per un tempo indefinito e poi riemergere dopo chissà quante ore pensando di aver compiuto un atto di svago. In realtà quello che hanno fatto non è propriamente riposo. La sensazione può essere quella perché magari si stacca la mente, però di fatto hanno prodotto. Stare su internet e sulle piattaforme rientra nel circolo di produzione cyber capitalista: tu entri, scrolli, guardi, però intanto compri, crei engagement, svolgi lavoro passivo per terzi».

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Instagram / @brielarson
Brie Larson

Di recente la città di New York ha fatto causa a TikTok, Facebook, Instagram e altre piattaforme social con l’accusa di aver peggiorato la salute mentale degli adolescenti

«Focalizzarsi sui singoli non aiuta: molte persone utilizzano i social per condividere genuinamente qualcosa di loro, quello che invece andrebbe indagato, anche da un punto di vista legale, è appunto il ruolo delle piattaforme. Vengono pubblicizzate come luoghi di condivisione, ma non sono costruite per la collettività, servono a generare ricavi e sono strutturate in modo che tu finisca per diventare davvero dipendente».

Il problema, alla fine, è sempre il capitalismo? Tu lo chiami “capitalismo cronofago" perché ci mangia il tempo

«Oggi si è passati a un iper capitalismo, un capitalismo che vuole guadagnare sempre di più e cerca un profitto sregolato in qualsiasi ambito della nostra esistenza».

Anche riposare diventa un lusso. Citi Ottessa Moshfegh: la protagonista del suo libro può permettersi di dormire un anno intero solo perché è ricca.

«Il riposo, tolte le 8 ore di sonno, non viene ritenuto come un bisogno fisiologico. Tutto ciò che ha a che fare con il riposo, nel senso di tempo trascorso a oziare, a divertirsi, a fare le proprie attività, a stare con gli amici eccetera è un lusso perché è un tempo che le persone devono potersi permettere di trascorrere senza lavorare e quindi guadagnare per mantenersi in vita. Quindi disporre di tempo disponibile per non lavorare è sicuramente qualcosa che sempre meno persone riescono e riusciranno a fare».

Il diritto al riposo è una questione femminista?

«Sì, la a distribuzione del tempo è una faccenda femminista perché ci vengono dati dei binari predefiniti che, a seconda del genere di appartenenza, devono essere impiegati in un certo modo. Nel caso delle donne, delle persone socializzate come tali, il buon tempo è quello trascorso a svolgere lavori di cura, magari anche ad avere cura per se stesse, ma sempre con una finalità di piacere agli altri. Parlare di tempo è molto importante perché ci ricollega a tutto ciò che è stato imposto alla categoria femminile fin dall'alba dei tempi. Da un punto di vista di lotta di classe il discorso è lo stesso: alla classe lavoratrice il tempo viene imposto e quando smette di lavorare cerca di migliorarsi sempre per avere delle prestazioni lavorative migliori. Poi ci sono tutte le varie intersezioni: se sei donna della classe lavoratrice, magari migrante, il tempo diventa il tempo del riposo diventa proprio irrisorio».

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Instagram / @camila_cabello
Camila Cabello

Nel libro scrivi che il diritto al riposo è anche legato al cambiamento climatico

«Se ne parla poco ma in un'epoca in cui le temperature si alzano sempre di più, la possibilità di dormire veramente 8-6 ore tranquillamente e di lavorare in un contesto fresco ha molto a che fare anche con il potersi permettere di avere una casa con aria condizionata o di non dover andare in ufficio alle 14:00 senza svenire. Alcune aziende iniziano a chiedersi se sia necessario o meno cambiare l'orario lavorativo, iniziare o dopo finire prima. Però ci sono lavoratori, come i medici e gli infermieri, che non possono iniziare a lavorare alle 06:00 e finire a 12:00. Si possono pensare a delle soluzioni ma è un problema sistemico che va affrontato».

Citi diversi autori che hanno immaginato società con una diversa suddivisione di lavoro e riposo. È solo utopia o immaginare ci aiuta?

«Io sono un’ottimista solarpunk, quindi non penso sia solo utopia (ride). Mi rendo conto che sia veramente difficile e chissà quanti decenni ci vorranno, però già contrattualizzare il lavoro di cura spogliandolo dell'accezione di genere sarebbe un primo passo. Purtroppo non è una questione che viene ritenuta prioritaria anche perché la cultura adesso ci dice che prima di tutto è importante lavorare e avere una propria vocazione lavorativa, solo dopo viene tutto il resto».

In questo senso parli di «manifestare pisolini» come «invito ad allenare l’attenzione e la consapevolezza» su questo tema. Mi ha colpito la parola "manifestare", mi ricorda i video su TikTok

«Sì, "manifestare pisolini" nel senso di desiderarli e poi anche di “manifesto” nel senso standard che ritorna nell'ultima sezione del libro con dei punti di azione. Io sono una bimba di internet, ci passo tantissimo tempo e quindi ho un po’ strizzato l'occhio al trend del "manifesting", che poi è antecedente a TikTok. Però anche i trend, i video sui licenziamenti e il quiet quitting, per quanto rientrino in quel vortice alimentato dalle piattaforme, rimangono una prima forma di rivoluzione, quantomeno del pensiero. Sul riposo le nuove generazioni sono state veramente capaci di comunicare un’esigenza. Poi chiaramente per passare dalla teoria alla pratica c'è bisogno di collettività, di sindacati però è importante accendere una miccia, accenderla a quante più persone possibile».

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instagram @kaiagerber
Kaia Gerber

Di solito però il manifesting è una pratica individuale: si visualizza quello che vorremmo ci accadesse. Può essere anche una pratica collettiva?

«Si può iniziare a manifestare in solitaria, poi però, nel momento in cui si fa questo switch dalla cultura del profitto a una cultura che tiene conto del riposo e delle attività di ozio, diventa contagioso parlarne, riavvolgere quello che è successo fino ad adesso, e cercare di creare questo spazio anche per gli altri. Quindi il manifesting da individuale e individualista diventa collettivo».

E in questo senso assume un valore politico.

«Sì, assolutamente».