Non avendo avuto fratelli e, di conseguenza, nessun giocattolo maschile disponibile in casa, le mie Barbie non hanno mai potuto avere un amante. In assenza di Action Man, si sono dovute accontentare sempre e solo di Ken (che ha necessariamente più volte cambiato ruolo e identità diventando la causa di probabili strascichi psicologici che si sono consumati nella mia stanza e di cui mi sento in parte responsabile). Dopo aver visto Barbie, il nuovo, attesissimo film di Greta Gerwig in sala dal 20 luglio che compendia esistenzialismo e lotta in formato blockbuster, mi chiedo se effettivamente sia stata percepita da loro come una mancanza. Un’insufficienza. Dopo tutto avevano già ogni cosa e l’autodefinizione, come Gerwig lascia spiegare alle sue protagoniste più volte nel film riprendendo gli stilemi del femminismo della quarta ondata, non passa dagli oggetti che possediamo, specialmente dagli uomini che amiamo, troviamo e che ci amano a loro volta. Ma più di tutto, le mie Barbie avevano già me e mia madre, quattro mani appartenenti a una bambina e a un’altra che lo era stata in grado di trasferire su quei corpi che vestivamo, svestivamo e spostavamo tutte le storie che ci sarebbe piaciuto vivere o anche solo raccontare.

La trama, considerando la campagna marketing onnipresente ossessiva e infinita, probabilmente la conosceranno pure quelli che il film non lo vedranno mai. Margot Robbie è Barbie Stereotipo, la più nota tra le Barbie che risponde ai cliché sulla bambola più famosa al mondo. Vive serenamente la sua vita a Barbieland, un idilliaco regno rosa incorniciato da una catena montuosa dove tutte sono Barbie con le relative accezioni, Barbie dottoressa, Barbie primo ministro, Barbie giudice della Corte Suprema, Barbie Ceo, Barbie incinta anche se la Mattel ha provato a cancellarla, e tutti sono solo un coro castrato e metrosessuale di Ken senza alcuna accezione, tra cui si erge Ryan Gosling in una delle sue migliori interpretazioni di sempre. La loro vita procede nel solito modo dal 1959, anno della creazione finché, durante una festa, Barbie viene assalita da un terribile e inesorabile pensiero. La morte. Crisi esistenziale, i suoi talloni toccano terra. Depressione maniacale. Dovrà quindi andare nel mondo reale affrontando un viaggio insieme a Ken che come tutti gli altri Ken vive solo grazie al riconoscimento di lei, per incontrare la bambina che psicosomaticamente le ha trasferito queste inquietudini e ritornare così a essere come quella di un tempo: perfetta.

Mattel, la grande casa di produzione dietro al successo di Barbie, ha provato per anni a riconciliare la sua bambola con il mondo reale nonostante in principio lo fosse già. Le origini del giocattolo risalgono a Ruth Handler, una delle fondatrici dell’azienda che voleva realizzare un gioco per ragazze che le emancipasse dal fingere sempre e solo di essere madri. Trovò la sua ispirazione in una bambola tedesca dall'aspetto adulto chiamata Bild Lilli, che Mattel avrebbe riconfigurato e battezzato Barbie, da Barbara, la figlia di Handler (la tesi meno commovente ma che preferisco vorrebbe invece Barbie ispirata a Barbara Ryan, moglie del capo progettista di Mattel a sua volta ex progettista di missili per il Pentagono, il che avvicinerebbe ancora di più il film a Oppenheimer). Negli anni, abbiamo visto quanto la realtà abbia superato quel tentativo di liberarci tutte. Barbie biondissima e magrissima è diventata conformista, opprimente, «fascista» le dicono nel film, investendola a turno di celebrazioni come gioco per bambine e di rimproveri per essere diventata un veicolo di norme di genere tossiche e ideali consumistici di femminilità. Così abbiamo avuto Barbie di diverse etnie, nel 2016 con la linea Fashionistas si è aperto il campo a bambole con tre tipologie di corporatura, simili alle fisicità delle persone comuni e con forme meno idealizzate, anche in sedia a rotelle. Ma se Barbie è stata un punto cruciale della guerra culturale di tutto questo tempo, è perché la bambola racchiude perfettamente nelle sue forme e realizzazioni le idee mutevoli sulle ragazze e sulle donne. Cosa siamo, eravamo e cosa desideravamo diventare, come potevamo lottare e se potevamo farlo rioccupando gli spazi in un luogo – il mondo – in cui ogni altra cosa sembrava invadere quelli che dovevano spettarci. Dove, proprio come la versione rimpicciolita e artificiale di noi stesse, venivamo dominate e sovrastate da mani che non erano le nostre.

barbiepinterest
Warner Bros.

Non è un caso che il film abbia avuto una lunghissima gestazione (otto anni), non lo voleva fare nessuno. L’idea che Barbie potesse essere raccontata quale icona di emancipazione in un film che Gerwig ha poi trasformato in propaganda meravigliosa per bambine, sulla parità di genere piuttosto che sul femminismo, in cui si ride, si piange e si pensa, strideva con l’opinione comune o almeno con quella di Amy Schumer e Anne Hathaway che inizialmente avrebbero dovuto interpretare il ruolo di Robbie, a cui va anche il merito di aver scelto la regista. Così che grazie al suo sguardo personale, ricamato sull’esperienza femminile e sugli esordi nel mumblecore (Frances Ha, Mistress America) e all’approccio pop e intellettuale verso i temi della female exploitation, con la sceneggiatura scritta insieme al marito e regista Noah Baumbach (lo stesso Gosling aveva detto essere «lo script migliore che abbia mai letto»), Gerwig ha sostituito una storia che pensavamo non avesse più nulla da dire con una che doveva essere ancora raccontata da qualcuno in grado di farlo.

Perché Barbie che è tante cose, una storia di riconciliazione materna messa al bando in Vietnam per le tensioni con Pechino sul Mar Cinese Meridionale (davvero), un insieme di riferimenti nerd da Matrix a 2001: Odissea nello Spazio fino al Dottor Stranamore, con i personaggi che si esprimono attraverso slogan da manifesto femminista, «la mia fragilità è la mia forza», il patriarcato che esalta Ken nonostante creda si riferisca a un impero retto da uomini e cavalli, l’ironia e il focus sull’importanza del dialogo tra le parti che aggiusta quasi tutto, è soprattutto un film politico sulle categorie più vulnerabili. E sulla vita delle donne e delle bambine di una volta, giocando con la loro nostalgia insita in quello slogan con cui la Mattel nel 2015 provò a rilanciarsi: «Quando una ragazza gioca con Barbie, immagina tutto ciò che può diventare».

Da qualche parte, in qualche libro, ci dovrà pur essere scritto che i discorsi delle nostre madri assomigliano a quelli pronunciati prima delle consultazioni elettorali e referendarie. Hanno l’intonazione solenne di un atto conclusivo in cui per paradosso è ancora tutto possibile. Con mia madre, quando ero piccola, giocavamo a trovare per me e ritrovare per lei quello spazio di aperta opportunità dandoci appuntamento alla fine delle sue giornate nella mia vecchia stanza per inscenare nuovi racconti. C’era un solo Ken, nessun amante, e solo il desiderio di plasmare la loro vita come avremmo voluto fare con la nostra. Una parentesi di futuro in mezzo a tutti gli atti conclusivi. Abbiamo smesso di farlo e probabilmente nessuna ex bambina lo fa più, preferendo chiudere quella storia di cui Barbie ci ricorda l’importanza, mentre ci siamo messe a cercare un modo diverso di stare al mondo.