Tra pochi minuti ho l’appuntamento più strano della mia vita. Mi vedo con e.DO e non si tratta di un ragazzo, bensì di un robot, eppure lo sfarfallio nello stomaco è lo stesso, forse anche di più! Cosa farò con e.DO, ossia un piccolo automa “modulare e open-source, flessibile e interattivo” (caspita, la descrizione sembra più promettente di quelle che trovi sulle app di dating)? Ebbene, tenterò di programmarlo! Non da sola, però. Sarò con altre 500 ragazze suddivise in 50 team. L’occasione è l’evento Live Robotica Think pink, organizzato da Comau, azienda leader in automazione industriale, per contrastare il gap di genere in un settore prevalentemente maschile. Sono pronta? Ovviamente no! Come tante, sono cresciuta a pane e romance, lontana dalle materie Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Ma mentre mi avvio all’Auditorium della Tecnica di Roma, sede del confronto, la curiosità sale e anche la determinazione: sì, posso farcela.

Appena arrivo, lo vedo. Anzi, li vedo! 50 e.DO, bracci robotici a sei assi che, a osservarli da vicino ti chiedi: «Quindi saranno veramente queste creature metalliche a sostituire in un futuro non troppo lontano tutti i lavori potenzialmente automatizzabili, portando a un calo preoccupante dell’occupazione, specie femminile?». Almeno, è questo ciò che dicono molte previsioni. La mia faccia è dubbiosa ma Donatella Pinto, responsabile HR di Comau, conferma: «È così, ma le prospettive sono meno nere di ciò che sembra. Infatti la robotica offre molte opportunità di lavoro, a una ragazza. Da fuori può sembrare un settore un po’ arido, ma al contrario è stimolante e in forte crescita nei campi più disparati». Qualche esempio? «Oggi la tecnologia viene applicata anche alle relazioni, basti pensare ai chatbot, che necessitano di testi e contenuti, per non parlare di settori come neuroscienza e psicologia dinamico comprensiva». Ora sì che guardo e.DO con gli occhi a cuore. Dopotutto, potrebbe liberarmi da un lavoro ripetitivo e alienante per offrirmi una carriera professionale ben più appagante...

Adesso, però, è ora di mettersi al lavoro. Mi avvicino al tavolo che condivido con le altre ragazze del mio team. Età media 20 anni, molte studiano Ingegneria e provengono da tutta Italia. Ci stringiamo intorno al nostro e.DO guardandolo quasi adoranti, pronte a contenderci le grazie di un robot snodabile, neanche fosse un tronista. Ma tant’è... Primo obiettivo? Mettere le mani sul tablet in dotazione, con cui programmare l’amico automa. Preso: è mio! Mi spiegano che devo digitare sulle frecce per spostare la pinza in cima al robot, ma quando mi ci metto scopro che non è affatto semplice. Ci vuole una mente lucida e super concentrata per ottenere anche un piccolo movimento. Passo il tablet a Giulia, che è di fianco a me, e prendo appunti. Ci stiamo esercitando a turno a fare afferrare a e.DO un cubo che poi sposta su piccoli cilindri. Divertente ma… a cosa serve? Faccio una battuta ed ecco che mi si apre una marea di opzioni cui non avrei mai pensato. «A me servirebbe per usare il telecomando a casa!», dice Lucia. «Io lo vorrei per farmi portare gli occhiali mentre sono al computer», osserva Laura. Non a caso, sono entrambi piccoli gesti che facciamo in automatico ma che ci rubano tempo. In effetti, sarebbe bello se, magicamente, qualcuno ci aiutasse mentre lavoriamo, svolgendo queste piccole azioni per noi. Una specie di Alexa che si muove nello spazio. Ma un robot, scopro, può fare molto di più. Per esempio, diventare il tuo assistente per svolgere lavori manuali e ripetitivi. È lo scopo di Mate, che mi presenteranno più tardi: un esoscheletro (struttura mobile in grado di potenziare le tue capacità) che, indossato come una seconda pelle, replica i movimenti dinamici della spalla.

Mentre fantastichiamo sull’utilità di avere un e.DO tutto per noi (magari potrebbe pure sostituire il partner), comincia la sfida vera e propria: realizzare un programma che gli faccia compiere un movimento finalizzato, dargli un nome e filmare il risultato, il tutto in mezz’ora. Decidiamo di dargli gli imput necessari a costruire una torre.

Il nostro progetto si chiamerà 21, come il nostro tavolo (e il numero di tentativi che saranno necessari a programmarlo correttamente!). A questo punto, non posso non notare che le mie compagne d’avventura più giovani sono decisamente avanti rispetto a me nel gestire le funzioni strettamente tecniche e operative del tablet. Utilizzano con abilità il “tasto cartesiano” (che permette di muovere il robot con precisione) e iniziano a fare esperimenti. Sbagliano spesso, ma non si arrendono: anzi, riprendono la programmazione con più entusiasmo. Mi torna in mente una osservazione della responsabile HR:

«I robot realizzano processi creati da umani: da soli non fanno nulla». Ed è proprio quello che sta succedendo: è il nostro impegno, il lavoro di squadra finalizzato a un progetto comune, a rendere utile il nostro automa. Se è vero che stiamo assistendo a un cambiamento epocale nel mondo del lavoro, puntando su una maggiore formazione Stem noi ragazze potremo approfittarne, trasformando una difficoltà futura in un’opportunità.

Il tempo è finito e noi siamo ancora all'inizio... Pazienza, ci vuole pazienza. Mi alzo per curiosare tra gli altri team, ma sono l’unica. Le mie socie non mollano e continuano a lavorare, finché e.DO non si blocca. Nel frattempo sono tornata al mio posto e chiediamo aiuto a un supervisore. Così riprendiamo la programmazione. Siamo fuori tempo massimo, ma ora capisco che non importa. Ciò che conta è il progetto comune. Ciò che conta è provarci sempre e comunque senza mai arrendersi. E finalmente ci riusciamo: il programma funziona! Il nostro e.DO si rivela abilissimo nel costruire una torre: dopotutto, è un super braccio meccanico, e noi un team fortissimo. Viene annunciato il progetto migliore. Non è il nostro, ma mi sento ugualmente parte di una squadra vincente. Anzi, tutte queste ragazze hanno vinto. E sono solo una piccola parte di un grande cambiamento possibile. Sì, andremo lontano.

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