Dal 2020, anno in cui la pandemia ha rimestato le carte del mondo intero, gli assetti economici, sociali e psicologici globali sono cambiati già diverse volte, con un punto fermo: non siamo più quelli che eravamo prima del Covid. E non solo nel privato, ma anche sul piano professionale. Abbiamo rimesso in fila priorità e urgenze, rivisto ritmi e obiettivi. L'idea di vivere per lavorare, soprattutto nei più giovani (ma non solo), si è sgretolata: alla fine di un triennio altalenante, i ragazzi hanno capito che la propria sfera individuale non può essere sacrificata sull'altare della performance e del carrierismo a tutti i costi. Lo ha rivelato anche un'indagine portata avanti da Cosmopolitan.

Non hanno rinunciato, però, a prendere il buono dai settori in crescita, primo tra tutti quello digitale, in cui la Gen Z è nata, fiorita e si è evoluta. Nell'ultimo decennio, la proliferazione di nuovi lavori e mansioni distribuiti in vari ambiti, dall'arte alla moda, dall'educazione alla finanza, è stata segno distintivo della crescita del settore. Arrivando all'oggi, è l'intelligenza artificiale a offrire sbocchi inediti: secondo il World Economic Forum 2023 tra i lavori più richiesti dei prossimi anni ci sarà proprio l'AI Learning&Machine Specialist.

Secondo Virginia Stagni, nuova CMO di The Adecco Group Italia che abbiamo sentito in merito a questi nuovi equilibri e bisogni così radicati nella cultura digitale, oggi i ragazzi selezionano e poi decidono di rimanere in aziende che mettono al primo posto il benessere mentale. D’altronde lo dicono le stime, con il «75% dei lavoratori che sceglie di rimanere in azienda se capisce che il datore di lavoro è interessato al tema della salute psicologica». È una priorità, una consapevolezza che i lavoratori più giovani oggi danno per scontata: si rimane dove si lavora bene, e indietro non si torna. Altro valore non negoziabile è la «trasparenza: le giovani generazioni ambiscono a rapporti onesti e trasparenti con il datore di lavoro, sia da un punto emotivo che sociale. E questo perché non si è più disposti a essere solo un curriculum, una risorsa tra tante la cui complessità psicologica è un peso». Terzo punto, la possibilità di crescere sul piano individuale anche nel contesto lavorativo: se la retorica del workaholism oggi non regge più, è pur vero che i ragazzi preferiscono posti in cui le loro competenze, soprattutto quelle digitali, vengono coltivate e fioriscono grazie a programmi di formazione e upskilling.

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La leadership di domani

Proprio a questo proposito, una recente indagine del Sole 24 Ore ha analizzato la tendenza dei giovani lavoratori a rifiutare posizioni da leader, preferendo invece investire su una carriera orizzontale che permette di imparare sul campo e da chi ha più esperienza, così da alimentare il proprio valore in modo consapevole (e senza pressioni).

Secondo Stagni non si tratta di un fenomeno passeggero né inedito, ma di «una tendenza che è sempre esistita, perché il 'leader e il follower' sono parti fondamentali dell'equilibrio di un sistema che muta così come cambiano i desideri e le priorità degli esseri umani che lo animano». Fondamentale, questo vale per la Gen Z ma si applica a tutti, è che le «aziende diano a tutti i lavoratori l'opportunità di cambiare prospettiva». Insomma, se oggi non voglio dirigere ma seguire e imparare da chi ha più esperienza di me, un domani, quando sarà arrivato il momento giusto, devo essere messo nelle condizioni di fare il salto verso un nuovo ruolo. E questo è un altro di quei "patti" cui i giovani lavoratori non rinuncerebbe mai.

Non è vero che la Gen Z non ha ambizioni

E il "meglio", dopo la pandemia, è il contrario di burnout, ovvero stress da super lavoro. Di cui pure milioni di persone, nel mondo (il 62% solo in Italia, secondo un sondaggio dell'Osservatorio Mindwork-BVA Doxa del 2022), sono ancora affette. Proprio a questi meccanismi la Gen Z vuole sottrarsi, per stare (e lavorare) meglio e mantenere integro il proprio equilibrio.

Questo, secondo Stagni, «è un movimento culturale destinato a rimanere, un’ondata in cui le persone e il loro talento sono al centro dell'azienda. Possiamo vederlo come un cambio di narrativa in costante evoluzione: oggi il posto di lavoro deve essere il luogo dello sviluppo del capitale umano». Di meno non si può accettare. Almeno, la Gen Z non è più disposta a farlo.

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Rallentare per coltivare ambizioni

Sulle tendenze del mondo del lavoro che si sono avvicendate in questi anni - dal downshifting che punta a rallentare i ritmi per non essere sopraffatti al quiet quitting, che invece ha portato migliaia di giovani a dare solo ciò che erano tenuti a restituire in termini di contratto senza sensi di colpa - l'esperta conferma che sono arrivate per restare. «I dati globali ci dicono che in periodo post-pandemico questi fenomeni hanno avuto un picco e che si tratta di sintomi strettamente legati ai bisogni delle nuove generazioni, a quei valori che appunto non vogliono mettere più in discussione. Sono dinamiche che la pandemia ha forzato, probabilmente unico aspetto positivo, insieme all'accelerazione digitale, di quel periodo che è stato spartiacque nella vita di ognuno».

Il digitale, come dicevamo, è percepito come universo delle infinite possibilità, una terra promessa in fermento dove tutto è possibile: nel 2022 è cresciuto il numero di nomadi digitali, cioè di chi decide di lavorare senza stanziarsi in un posto fisso. L'indagine di Passport-Photo.Online ha specificato che il comparto prediletto di questi professionisti rimane l'IT (19%) seguito da quello creativo (10%). E proprio il lavoro dell'influencer e content creator, secondo un altro report di Adecco, è diventato, per la flessibilità e opportunità che offre, la professione dei sogni: rispetto a 10 anni fa oggi la sua popolarità è salita del 505%.

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Al netto dell'appealing di queste professioni, alimentate dal mito (non sempre realistico) dei social e diventate un modello ispirazionale, «il fatto che la Gen Z sia una generazione nativa digitale offre un vantaggio alle aziende, è una risorsa che favorisce l'incontro tra professionalità e skill completamente diverse tra loro. E così come per i ragazzi è interessante un posto di lavoro che si è adattato ai grossi cambiamenti di questi ultimi anni, allo stesso modo le aziende devono essere in grado di accogliere e coltivare la loro consapevolezza in termini digitali». Il limite di un mondo che evolve è non riuscire a stargli al passo, è non capire che le nuove modalità lavoro ibride hanno la stessa dignità di quelle tradizionali: adattarsi alla cultura digitale, per le aziende, è un esercizio quotidiano.

Certo, ci sono anche ombre: il tempo del lavoro, soprattutto se svolto da remoto, può portare le risorse con meno esperienza a non distinguere più quali sono i confini col tempo del privato, né a capire quando è meglio smettere per fare altro. Il digitale è fluido e flessibile e questo è un bene, ma di questa fluidità dobbiamo ancora capire i contorni: il burnout non si annida solo negli uffici, ma può fiorire anche tra le mura domestiche.

Lo stipendio non basta più

Alla fine di questo viaggio, una cosa è chiara: per la Gen Z è fondamentale che i valori (legati alla sostenibilità, all'inclusione, al welfare) dell'azienda in cui si lavora corrispondano ai propri. Questi valori, la Gen Z non è disposta a metterli in discussione neanche in cambio di un aumento di stipendio: lo ha detto il 90% degli intervistati nati tra il 1997 e il 2002 in un'indagine di Censuswide. E anche secondo Virginia Stagni «lo stipendio non basta più. Per trattenere un giovane lavoratore in azienda serve attenzione per il work life balance, serve dare fiducia alle sue competenze digitali innate. Parlare di diversity e inclusion non significa solo integrare diversità etnografica e di genere negli assetti aziendali, ma anche imparare a riconoscere e coltivare la complessità di ciascun individuo». Una priorità, questa, su cui la Gen Z non ha nessuna intenzione di spegnere i riflettori.