“Il talento è uno dei fattori determinati per la crescita e la competitività. Per creare in futuro un’economia dinamica e inclusiva dobbiamo assicurare a tutti le stesse opportunità. Se le donne non vengono integrate la comunità globale ha solo da perderci: competenze, idee e prospettivi che sono cruciali per vincere le sfide globali e sfruttare nuove opportunità.”

Con queste parole esordisce l'ultimo report globale, redatto lo scorso anno (leggi per intero il Global Gender Gap Report 2017), che ogni anno indaga lo stato dell’arte nella disparità di compenso, opportunità e diritti nell’ambito lavorativo tra uomini e donne.

A quanto pare ogni anno il traguardo della parità si allontana. Se fino all’anno scorso le stime per colmare l’abisso tra quanto guadagnano gli uomini e le donne era di 170 anni, quest’anno è stato ricalcolato secondo gli attuali parametri. Tieniti forte: ci vorranno 217 anni. Più di due secoli, cioè circa 8 generazioni. Forse la tua bis-bis-bis-bis-bis-bis-bis-bis-nipote guadagnerà come i suoi colleghi maschi. Deprimente, vero?

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Nei paesi sviluppati, quest’anno una donna ha guadagnato in media 12mila dollari, contro i 21mila di un uomo.

Il trend delineato dal World Economic Forum è negativo: se pochi anni fa sembrava che ce ne volessero 80, poi 120, poi 170 e ora più di 200. Com’è possibile questo inesorabile rallentamento?

Non dipende solo dal fatto che gli uomini e le donne vengano pagati in modo diverso per fare lo stesso lavoro. La radice del problema è molto più profonda: per semplificare al massimo le donne hanno accesso a settori dove il lavoro viene retribuito poco, a volte è sottopagato, e non ci sono speranze di fare carriera. Ovviamente è molto più complesso di così.

Pensa a rami come la finanza, la tecnologia, la politica, dominati storicamente dal genere maschile. È da pochi decenni che le donne, a fatica, riescono a farsi strada anche in questi settori, ma si tratta ancora di una esigua minoranza di donne tenaci, ambiziose, decise a tirar fuori il testosterone per competere alla pari col genere dominante. A trasformarsi, in un certo senso, nella versione mascolinizzata di se stesse, alienando quella parte femminile che dalla notte dei tempi le penalizza, come se essere donna significasse avere una marcia in meno.

Le motivazioni per cui le donne non ce la fanno, non arrivano, sono totalmente arbitrarie: ai vertici storicamente ci sono sempre stati uomini, che quando si tratta di dare una promozione fanno andare avanti altri uomini. È come se il circolo vizioso non riuscisse a spezzarsi. In più sulle donne, da sempre, gravano impegni famigliari come l’accudimento dei figli e dei genitori anziani.

Una donna che si prende una pausa per fare un figlio ha molte meno chance di fare carriera e quando rientra al lavoro non ha alcuna garanzia di trovare le stesse condizioni di prima. Magari è tutelata da un contratto, ma nella realtà dei fatti può essere demansionata, discriminata, messa nelle condizioni di non farcela a conciliare il lavoro con gli impegni famigliari. Riunioni che finiscono tardissimo, straordinari non pagati, weekend lavorativi, turni incompatibili con la gestione di un neonato, richieste di part-time respinte costringono ogni anno milioni di donne a dimettersi. Entro un paio d’anni dopo la nascita del primo figlio una donna su quattro decide spontaneamente di lasciarlo e rientrare diventa sempre più difficile.

Ma qualcosa si sta muovendo. Alcuni paesi tra cui UK, Germania, Svezia, Australia e Giappone, hanno capito l’importanza della parità e dal 2013 hanno aderito a un programma che obbliga le aziende a rendere pubblica la propria politica salariale.

Cosa c’entra il sessismo con il gender gap

Uno studio condotto dai ricercatori di Cambridge assieme alle facoltà di Psicologia di due università cinesi, ha rivelato che gli stereotipi di genere e il sessismo sono più forti nei paesi con governi repressivi, che solo recentemente si stanno avvicinando alla democrazia, come per esempio la Polonia e il Sudafrica. I paesi più liberali sono molto più votati all’uguaglianza.

Per contrastare il sessismo bisogna demolire gli stereotipi di genere. Anche per questo 20 industrie leader mondiali assieme a UN Women (Ente delle Nazioni Unite per l'uguaglianza di genere e l'empowerment femminile) hanno creato Unstereotype Alliance. Tra le varie attività l’associazione contrasta le pubblicità sessiste, che promuovono una visione retrograda del ruolo della donna nella società.

La proporzione tra uomini e donne leader è ancora troppo sbilanciata

Il World Economic Forum ha condotto assieme a LinkedIn una ricerca per capire meglio come se la passano le donne nel mondo del lavoro. La leadership femminile nell’ultimo decennio è cresciuta di pochissimo. Attualmente le donne al potere sono meno degli uomini in ogni settore analizzato. Solo nell’ambito della sanità, dell’educazione e nel no profit le donne leader sono una maggioranza.

Attualmente solo 19 donne sono capi di stato: Theresa May in UK, Angela Merkel in Germania, Nicola Sturgeon in Scozia, Michelle Bachelet in Cile, Kolinda Grabar-Kitarovic in Croazia, Jacinta Ardern in Nuova Zelanda, Kersti Kaljulaid in Estonia, Dalia Grybauskaite in Lituania, Erna Solberg in Norvegia, Park Geun-Hye in Corea del Sud, Marie-Louise Coleiro Preca a Malta, Beata Szydlo in Polonia, Hasina Wajed in Bangladesh, Bidhya Devi Bhandari in Nepal, Tsai Ing-Wen a Taiwan, Ellen Johnson Sirleaf in Liberia (la prima donna di colore al mondo e primo capo di stato in Africa), Ameenah Gurib-Fakim a Mauritius, Hilda Heine alle Isole Marshall, Saara Kuugongelwa-Amadhila in Namibia. Tutti gli altri (circa 200) sono uomini.

Molte di loro sono le prime donne della storia a ricoprire la più alta carica dello stato. Vediamolo come un dato positivo: rispetto a 7 anni fa sono raddoppiate. Di contro molte di loro governano paesi che non hanno un impatto significativo sull’economia globale: al governo degli USA, una delle maggiori potenze mondiali, non c’è mai stata una donna. Il 2017 poteva essere l’anno buono per Hillary Clinton, ma l’occasione è sfumata.

Hillary Clinton e Donald Trumppinterest
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Il gender pay gap anche colpa nostra?

Ovviamente no, ma possiamo fare qualcosa di concreto perché le cose cambino. Una di queste è negoziare meglio. Uno studio di cui parla Sheryl Sandberg, COO di Facebook, nel suo discorso al TED rivela che il 57% dei maschi che ottengono il loro primo posto di lavoro negoziano lo stipendio, contro appena il 7% delle donne. Sono passati alcuni anni (il suo intervento è del 2010) ma probabilmente non è cambiato molto da allora.

Secondo Mary Barra, CEO di General Motors per sanare la questione ci vogliono più donne in ruoli di leadership. Bella forza, penserai tu: arrivarci! Il problema è proprio quello, ovvero il soffitto di cristallo che impedisce alle donne di arrivare ai piani alti. Ma la buona notizia è che quando ci arrivano in genere aumentano le quote rosa ai posti di comando, innescando un circolo virtuoso che lascia più spazio alle donne di quanto ne lasciano gli uomini.

Attualmente nel mondo la proporzione tra donne e uomini al timone delle grandi aziende è desolante: su 5 manager solo una è donna. Secondo una ricerca, aumentando il numero delle donne al potere si colma progressivamente anche la lacuna nella disparità di guadagno.

Vuoi fare carriera? Non fare figli

Suona come una provocazione. Insultante, anacronistica, ingiusta, specialmente in un momento in cui la natalità in Italia è ai minimi storici, con una disoccupazione giovanile al 37% (dati Istat luglio 2017). Ma ad oggi, drammaticamente, rispecchia ancora la realtà.

Erano gli anni 60 quando Helen Gurley Brown, fondatrice e storico direttore di Cosmopolitan per oltre mezzo secolo, ha ispirato milioni di ragazze al grido mantra “Women can have it all”. Intendeva la carriera, un marito, una famiglia. In effetti le donne si sono emancipate parecchio, ma ancora troppo poco se pensi che fare figli e fare carriera per moltissime donne sono un ossimoro. Scelte di vita a volte obbligate, che portano in due direzioni diametralmente opposte.

Oggi le donne che rimangono fuori dal mercato del lavoro dopo aver procreato sono ancora troppe e la causa va cercata nelle politiche discriminanti. Non è che gli uomini se la passino molto meglio di noi in quanto a diritti: in Italia un neo-papà ha diritto a 2 giorni di congedo, contro i 5 mesi della neo-mamma. Se da una parte dovrebbero ribellarsi i padri, dall’altra si crea una situazione di comodo per cui nella coppia chi continua a lavorare è lui, mentre lei resta a casa ad accudire la prole.

E anche se la maggior parte dei Paesi prevede il congedo di maternità, solo il 40% delle donne che lavorano ne ha effettivamente accesso. Libere professioniste, freelance, lavoratrici autonome restano tagliate fuori. Insomma per la maggior parte delle donne fare un figlio significa nella migliore delle ipotesi restare senza stipendio per alcuni mesi, nella peggiore perdere il lavoro.

Secondo un report presentato da Aidos (Associazione italiana donne per lo sviluppo) e Unfpa (Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione) la forza lavoro da parte delle donne tra i 25 e i 40 anni sta aumentando, ma dove ci sono più donne che lavorano la fertilità è calata. Di pari passo è aumentata la disparità di genere in 68 Paesi. Un dato evidenziato da questa ricerca è allucinante: in 18 paesi vige una legge che consente agli uomini di impedire alla moglie di lavorare fuori casa. In Italia il livello di discriminazione in base al genere è uno dei più alti al mondo, allineato a quello di paesi in via di sviluppo come Yemen, Sudan e Bangladesh.

La parità di genere conviene a tutti

Le donne sono la metà della popolazione, sembra una banalità ma tenerne conto a livello economico fa la differenza. Se le donne guadagnassero di più, spenderebbero di più, pagherebbero più tasse, avrebbero un impatto maggiore sull’economia globale. Si stima che la parità di genere porterebbe nelle casse dei governi centinaia di miliardi in più. Perché allora non esiste una legge che imponga alle aziende di pagare allo stesso modo le persone, indipendentemente dal genere? Forse ci si arriverà, speriamo molto prima del 2234.

Nel frattempo, dove non arrivano le leggi arrivano le aziende. Paul Polman, CEO di Unilever, spiega: “Investire nelle donne per noi è un’imperativo. Abbiamo fatto dei passi avanti significativi verso la parità di genere. Sono orgoglioso che nella nostra azienda circa la metà dei nostri manager sono donne.”

E noi cosa possiamo fare, concretamente, per spingere in questa direzione? L’abbiamo chiesto a Riccarda Zezza, fondatrice di Piano C e MAAM, attivista della parità di genere nell’ambito del lavoro. “Secondo l’Istat le donne guadagnano meno fin dal primo impiego e hanno contratti più fragili. Ma non è compito delle giovani donne, individualmente, verificare e porre rimedio. Si tratta di portare le aziende a pubblicare i livelli salariali, renderli pubblici con delle politiche ad hoc. I dati devono essere pubblici e la discriminazione salariale per genere deve diventare illegale.”