Anche tu sei rimasta a bocca aperta vedendo danzare Giuseppe Guercia, il ragazzo sordo che si è esibito a Ballando con le stelle 2016 nonostante non possa sentire la musica? Giuseppe è la prova che nessun ostacolo può contro il talento e la determinazione. Ma come è possibile superare un handicap così invalidante? E in che modo questo giovane ballerino è riuscito a imparare a muoversi a un ritmo che le sue orecchie non riescono a percepire? L'abbiamo chiesto alla psicoterapeuta Stefania Fadda che si dedica da anni proprio a queste tematiche ed è direttore del Centro Assistenza per bambini sordi e sordo-ciechi onlus (Cabss) di Roma, unico in Italia e punto di riferimento per tutto il Paese. Per il suo lavoro, che è soprattutto una passione, ha ricevuto anche il premio Pandora Donne X il Domani 2015. Qui ci racconta anche come è riuscita a trasformare la sua buona causa, aiutare i piccoli con gravi disabilità uditive, in una carriera.

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Stefania Fadda, psicoterapeuta specializzata nei bambini sordi e sordo-ciechi

Giuseppe Guercia danza ma non sente la musica: come è possibile? 

«Il suono non è altro che la sensazione prodotta dalle vibrazioni di un corpo in oscillazione. La persona sorda può sempre sentirle attraverso il canale sensoriale tattile (per esempio attraverso i piedi nudi sul pavimento, ndr), oltre che a volte anche tramite l'orecchio, con l'aiuto della tecnologia». 

Per realizzare il suo sogno ha dovuto superare molte difficoltà... 

«Giuseppe Guercia è la prova che è possibile andare oltre gli aspetti strettamente uditivi della sordità, nonostante le barriere comunicative presenti nella nostra società. La sua bravura ci dimostra che gli ostacoli sono solo nelle nostre menti, un concetto che nel nostro centro cerchiamo tutti i giorni di trasmettere ai bambini e alle loro famiglie, affinché i piccoli possano crescere serenamente. Una cosa, infatti, è "ascoltare", cioè udire con attenzione qualcosa o qualcuno, e un'altra è "sentire", che è un atto più profondo, che coinvolge l'intera persona quando comunica con il mondo e accede a informazioni che provengono dall'esterno attraverso l'uso di tutti i sensi e del corpo». 

Come mai hai iniziato a interessarti ai problemi legati alla sordità?

«Non ho familiari sordi, non è un interesse nato da un bisogno personale, ma da una grande curiosità per le lingue e i modi di comunicare, che coltivo fin da piccola. Da adolescente ho visto in tv usare il linguaggio dei sordi e ne sono rimasta affascinata. Così mi sono messa a studiarla e ho scoperto che dietro c'era una vasta comunità di persone che si rapportano in modo diverso da noi».

Hai fatto un percorso di studi particolari?

«Questo mio interesse mi ha spinto a iscrivermi a psicologia all'università studiando in modo particolare l'età evolutiva. Ho quindi iniziato a chiedermi che cosa succede quando un bambino sordo nasce da genitori che ci sentono, in che modo avviene il suo sviluppo dell'apprendimento. Mi chiedevo: quando arriva la diagnosi, come fanno i genitori? Perché scoprire che il tuo bambino non sentirà mai tutto ciò che vorresti dirgli, è davvero terribile».

Non sentire è perfino più invalidante che essere ciechi?

«La sordità è molto peggio della cecità: l'impossibilità di sentire le parole ti isola molto di più perché ti impedisce di comprendere il significato della realtà. Per spiegarmi meglio, farò un esempio: come si fa a trasmettere concetti come la fantasia o la libertà, se non attraverso la parola? Ho scoperto che in Italia non c'era nessuno studio su questo argomento. Dunque dopo la laurea, grazie all'aiuto dell'Associazione europea dei non udenti sono andata a Londra dove la ricerca era più avanti».

È stato allora che hai iniziato a "lavorare sul campo" con i bambini?

«Ancora no. Conoscevo bene le dinamiche e le difficoltà dal punto di vista teorico, ma non pratico. Se volevo occuparmi di bambini dovevo fare tirocinio. Così ho deciso di fare un dottorato in Psicologia clinica di un anno negli Stati Uniti, a Washington DC, presso il centro di salute mentale della Gallaudet, un'università per sordi ma accessibile a tutti, dove si comunica solo nella lingua dei segni americana».

Dunque la lingua dei segni che vediamo anche in tv non è universale?

«No, è italiana, così come ciascun idioma ha la sua, perché esistono riferimenti e gesti legati alle nostre specifiche culture che per un altro Paese possono assumere differenti significati. Conoscere la lingua dei segni americana è stata una tappa necessaria tanto più che per la durata del dottorato ho abitato all'interno del campus universitario».

Com'è stato vivere in un luogo dove non si sente mai una voce umana?

«È stata un'esperienza molto forte. Per un anno non ho parlato. Alloggiavo nel campus e anche la tv aveva i sottotitoli e nessun sonoro. Sono rimasta un anno e piano piano tutto ciò è diventato normale. Una volta finito il dottorato, poi, riadattarmi al mondo "là fuori" non è stato immediato. Per un po' di tempo ho faticato a parlare: dovevo tossire prima. Ero molto sensibile ai suoni e qualsiasi rumore mi dava fastidio. Ormai sono abituata: torno alla Gallawdet per aggiornamento almeno un paio di volte l'anno».

Quando hai cominciato a lavorare con i bambini?

«Era il 2008 ed ero in Italia solo di passaggio: presto sarei ripartita per il Nord Europa dove avevo trovato un lavoro. Mi ritrovavo però ad avere nostalgia della lingua dei segni Usa che qui non avevo occasione di usare. Qualcuno mi suggerì di contattare Roberto Wirth, un imprenditore (è il proprietario dell'hotel Hassler a Trinità dei Monti a Roma) sordo dalla nascita che aveva una onlus e da sempre sognava di aiutare i bambini affetti dal suo stesso problema in modo più concreto. Sono andata a conoscerlo. Dopo un po' che parlavamo mi ha detto: «Perché non lavora per me? Le dò carta bianca». Era il 2008, avevo 29 anni e sarebbe stata un'esperienza di enorme responsabilità, ma con un pizzico di incoscienza gli ho detto subito di sì».

Qual è stata la prima difficoltà?

«Il dover cominciare da zero: in Italia nessuno si occupava di seguire i bambini affetti da sordità. Ho superato l'ostacolo guardando all'estero, specie in Canada, a Toronto, dove sono all'avanguardia. Così abbiamo creato un nostro metodo a base di stimolazioni multisensoriali. E lo abbiamo destinato ai piccolissimi da 0 a 6 anni, subito dopo la diagnosi, perché più si agisce in modo precoce e meglio è perché il cervello è plastico».

Cosa fate in pratica?

«Dopo un primo incontro con i genitori e una valutazione iniziale del piccolo ci riuniamo (il nostro staff è composto da 4 psicoterapeute e alcuni collaboratori) per impostare un training cognitivo personalizzato che coinvolge tutti i sensi. Di solito, seguiamo ogni bimbo con la sua famiglia per 3
mesi. Ogni seduta, 2 a settimana, è videoregistrata per valutare i progressi. Terminato il percorso, monitoriamo per un po' i bambini anche a scuola. Ora il nostro obiettivo è aprire centri come il nostro in altre città e formare psicologhe ed educatrici per aiutare sempre più bambini!». 

Con l'aiuto giusto, dunque, un bambino sordo da grande potrà realizzare qualsiasi sogno? 

«Le esperienze in età evolutiva sono fondamentali per il nostro benessere in tutti gli ambiti della vita: relazionale, emotivo, cognitivo, comunicativo e linguistico. Il nostro compito, infatti, è offrire a questi bambini gli strumenti necessari per poter fare tutto, nel rispetto delle loro potenzialità ed esigenze, come Giuseppe. Perché ogni bambino è diverso dall'altro».

Se Giuseppe avesse avuto la possibilità di essere seguito fin da piccolo nel vostro centro, forse adesso sarebbe ancora più facilitato?

«Giuseppe Guercia è un giovane e promettente artista che sta realizzando i suoi sogni, con tutte le carte in regola per raggiungere traguardi sempre più lontani. Anzi, mi piacerebbe conoscerlo di persona, credo che potrebbe offrire ai bambini di Cabss un esempio di come tutto si possa fare». 

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