Era già capitato con Luca, il film di animazione Pixar del 2021, che a intitolare la propria recensione nel modo migliore e più puntuale fosse A.O. Scott per il New York Times – allora con “Calamari by Your Name” per sottolineare la somiglianza su cui molti avevano polemizzato tra il cartone e Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino di cui la Pixar sembrava aver tacitamente riprodotto la versione filogenovese con una coppia di mostri marini. È sicuramente casuale ma comunque divertente che nel nuovo e perfetto titolo calembour di Scott centri ancora il regista italiano di cui ha recensito l’ultimo film (sempre con Timothée Chalamet), Bones and All, arrivato al cinema il 23 novembre. "You Eat What You Are", con cui viene parodiato il nome della serie diretta da Guadagnino nel 2019, We Are Who We Are, e di cui il nuovo film applauditissimo durante l’ultima Mostra del cinema di Venezia dove ha vinto il Leone d’Argento per la regia riprende le fila, trasferendo i classici temi del coming of age, cuore della serie, in un contesto da body-horror. "You Eat What You Are", perché non siamo solo quello che siamo ma siamo soprattutto quello che ci mangiamo e viceversa, sintesi dell’intera trama di Bones and All i cui protagonisti sono due adolescenti cannibali innamorati, in viaggio alla ricerca di uno spazio che possa essere loro soltanto.

Adattato dall’omonimo romanzo di Camille DeAngelis del 2015, come per ogni prodotto televisivo o cinematografico di formazione – se non fosse che in questo caso la protagonista principale vuole trovare un approccio emotivamente ed eticamente sostenibile al cannibalismo – i contorni della storia sono lineari e subdolamente semplici. Conosciamo infatti la vita di Maren (le dà corpo l’attrice canadese classe 1994, Taylor Russell, definitivamente diventata una stella) appena diciottenne nel pieno degli 80s, intellettualmente curiosa e incompresa, abbandonata dal padre non-cannibale dopo una serie di incidenti in cui non è stata in grado di arginare la sua fame (emersa per la prima volta quando a due mesi ha pasteggiato con la propria baby-sitter), che viaggia dalla Virginia al Minnesota alla ricerca di sua madre di cui, con una videocassetta lasciatale dal genitore, ha scoperto la medesima natura. Lungo la strada incontrerà altri uomini appartenenti alla sua specie, buoni, meno buoni, spaventosi, fino allo snodo principale, l’arrivo di Lee-Chalamet che a interpretare il disagiato vulnerabile ormai è rodato, trovato per caso in un minimarket e con cui ha inizio un’intensa seppur breve storia d’amore. E proprio nonostante tutto questo, nonostante il sangue, gli intestini e altri organi interni di cui solo la trascrizione provoca un certo rimescolamento di fluidi corporei, quello che resta dopo la visione di Bones and All non è il suo lato più horror o cronenberghiano, ma l’idea di aver spiato la vita di due ragazzi definiti da un’afflizione, che non cercavano altro se non un mondo che li capisse.

taylor russell as maren in bones and all, directed by luca guadagnino, a metro goldwyn mayer pictures filmcredit yannis drakoulidis  metro goldwyn mayer pictures© 2022 metro goldwyn mayer pictures inc  all rights reservedpinterest
Yannis Drakoulidis / Metro Goldwyn Mayer Pictures
Taylor Russell in una scena del film

Come accaduto con Raw, storia di una aspirante veterinaria e primo lungometraggio della vincitrice della Palma d’oro per Titane, Julia Ducournau, o con We Are What We Are, film del 2013 di Jim Mickle in cui due giovanissime sorelle cannibali auspicano e lottano per una vita normale, e ancora con il più recente Hatching, racconto d’orrore finlandese presentato e apprezzato al Sundance su una ginnasta che la madre non è in grado di amare (nel 2022 è uscito pure Fresh, in cui il cannibalismo è associato al fenomeno del dating e infatti coerentemente con il tema fa schifo anche il film), il genere del body-horror ha un legame profondo, quasi atavico, e già approfondito dal cinema con l’adolescenza e l’ingresso nell’età adulta, vista come una forma di mostruosità da cui siamo stati disgustati eppure “autorizzati”.

Così la storia di Maren e Lee, esperienza sentimentale trasformata in un road movie nella tradizione di Bonnie e Clyde e soprattutto di Badlands. Viaggi per il paese con la speranza che la tristezza e l’inconsistenza che da un certo punto ti hanno assalito non ti trovino. Che non ti seguano come una nebbia fedele, da una costa all’altra, sempre pedinandoti, sperando che siano più attaccate alle radici e che quindi ci si possa allontanare cambiando strada, accumulando le distanze e creandoti una vita nuova come provano a fare Lee e Maren. Magari innamorandoti, comprando una casa, un letto nuovo, iscrivendoti a un corso. Riempiendo le tue giornate di diversivi. E invece, come suggerisce Guadagnino che a volte è esasperante, altre sensuale, volgare, camp o stucchevole e in Bones and All è commoventemente tenero e precisissimo (grazie anche alla fotografia malinconica di Arseni Khachaturan) ciò che accompagna il nostro passaggio dall’innocenza alla maturità è un momento in cui si deve perdere tutto e sentire lo strappo, preparandoci a passare il resto della nostra vita a convivere con il rattoppo.

Secondo un articolo apparso sull’Atlantic e basato su una serie di ricerche condotte durante gli ultimi anni, nonostante ci abbiano fatto credere che gli opposti si potessero attrarre meglio di quanti invece già si corrispondevano, dal 2015 staremmo assistendo a un cambiamento di rotta dovuto ai tempi difficili che abbiamo e stiamo attraversando, scegliendo infatti partner più simili e affini a noi, che ci capiscano, proprio come accadeva quando si era più piccoli per coprirsi a vicenda le lacerazioni e spartirsi il peso delle cose. Consapevoli che anche se l’amore è per i simili non sarà abbastanza, come dimostra Maren con cui Russell ha ottenuto il premio Marcello Mastroianni per la sua interpretazione in un racconto che è tante cose diverse e da cui emergono più significati – non ultimo la visione secondo cui la società dagli Anni ’80 avrebbe reso gli adolescenti figure marginali come zombie. Un film adolescenziale nella migliore accezione del termine che combina l’orrore della crescita con la delicatezza e purezza dei primi sentimenti, ma che soprattutto proprio come l’amore, qui letteralmente, ti divora.