In amore ho vissuto tre fasi: tutte e tre con la stessa persona e nel corso degli ultimi dieci anni. Sono tanto fortunata da parlare del mio primo, grande amore: a volte mi chiedo come sarà, tra cinquant’anni, voltarmi indietro e vedere sempre Davide che mi cammina accanto. La risposta credo di saperla già: sarà dolce e, se andrà davvero così, sarò fortunata.

Siamo molto gelosi dell’inizio della nostra storia e solo pochi amici intimi la conoscono. In pochi sanno infatti che galeotto fu un telefonino (era il 2003), un numero passato per gioco da amici comuni, i primi timidi sms, poi le telefonate, la scoperta di trovarci a 1117 km di distanza l’uno dall’altro. Io avevo 17 anni non ancora compiuti ed ero una ragazzina in un piccolo paese della Calabria, senza nessuna esperienza in amore che non fosse un episodio di Dawson’s Creek e Davide a Torino, lontanissimo. La prima fase è stata un gioco: le chiacchiere infinite al telefono, gli sms nel cuore della notte, la decisone di incontrarsi. Due incontri soli in due anni: troppo poco per me per considerarmi impegnata e troppo immaturi entrambi per crederci davvero.

Eppure, sapete che c’è? Certe cose si sanno. A rileggere il mio diario, dieci anni dopo (ve lo avevo detto che sono una romantica?) ho scoperto che l’ultima frase dell’ultima pagina è il suo nome: io ai segni ci credo e cos’è questo se non un segno?

Presa dalle avventure universitarie, stanca della lontananza ed eccitata per la mia nuova vita, ho detto basta: il 2005 è l’unico degli ultimi dieci anni in cui Davide non abbia fatto parte di ogni mia giornata, anche solo virtualmente. Lui sostiene di non avermi mai persa davvero di vista, io credevo di poter stare senza di lui.

Io ci credo a quella cosa che dicono, che una mattina ti svegli e hai dentro un pensiero che si era ben nascosto e che la sera prima non c’era. Con Davide è stato così: 364 giorni a sminuire e a smontare una storia neanche ancora cominciata perché troppo complicata e poi, improvvisamente, ecco che vuoi provarci. Abbiamo rischiato e ci abbiamo provato: e siamo ancora qui.

E’ così che è cominciata la seconda fase: quella degli Intercity notte Lamezia-Torino, dei viaggi organizzati con mesi di anticipo per riuscire a vedersi, delle settimane piene di baci e carezze e poi degli addii alla stazione, che ancora adesso, quando mi capita di vederne uno, mi viene da andare ad abbracciare quello che rimane a terra, e guarda il treno allontanarsi.

Noi la distanza l’abbiamo subita per tre anni: tre, lunghissimi anni in cui abbiamo sostenuto con ingenti investimenti le compagnie telefoniche e sognato una vita da fidanzati normali, quelli che si danno appuntamento al bar e si ritrovano insieme dopo massimo mezz’ora. Noi dovevamo incastrare impegni, lezioni, esami, tempo libero e mezzi di trasporto per avere una cosa del genere: forse per questo è stato ancora più bello, perché a ogni momento abbiamo dato più valore.
La terza fase è quella attuale: il mio trasferimento e poi, da due anni, la convivenza. Se mi guardo indietro, non riesco a mettere a fuoco un periodo più felice di questo e il merito è solo di Davide, che ci ha creduto, non mi ha mollata, mi conosceva a menadito ancor prima di guardarmi negli occhi e già da allora, dice lui, mi amava.

La mia è una storia iniziata a distanza, ma fortunata: avevamo un obiettivo comune, il progetto di un avvicinamento e non ci è mai passato per la testa di lasciarci perdere.

Ma di una cosa, sinceramente e senza falsa retorica, sono certa: quando hai la sensazione che quella persona sia l’altra metà, quella con cui più riesci a ridere, a lavorare, quella che ti emozioni al solo pensiero di vederlo papà dei tuoi bambini, quello con cui vuoi arredare una casa, litigare perché spendi troppo in fiori freschi e alzatine anche tutte le mattine, se poi dopo c’è la pace, beh, dove devo firmare?