Il 19 ottobre esce al cinema La battaglia dei sessi, il film con Emma Stone e Steve Carell, realizzato dalla coppia d'oro di registi Jonathan Dayton e Valerie Faris (gli stessi di Little Miss Sunshine), che racconta una storia vera, quella della tennista Billie Jean King che all'inizio degli anni 70 ha combattuto una battaglia per le donne, per le professioniste e per la parità di genere.

Il fatto è che dovresti vederlo perché gli americani, quando si tratta di raccontare storie di vita che hanno lasciato il segno, sanno farlo bene, lo sanno rendere emozionale con il tocco chirurgico delle corde giuste, e, soprattutto, sanno come collegare, in un cortocircuito cronologico virtuoso, il presente e il passato, quello che è stato e che ancora oggi ha senso perché la battaglia non è ancora stata vinta. E su questo potremmo prendere a esempio quello che è accaduto con il caso Harvey Weinstein e Asia Argento. C'è anche quel pizzico di commedia che non guasta mai e Emma Stone e Steve Carell sono fantastici. Ma andiamo avanti.

I punti da cui partire per parlare di La battaglia dei sessi potrebbero essere molti, ma una parte del tutto è il contesto. Lo sport americano è un universo parallelo rispetto a quello a cui siamo abituate a pensare quando ci ricolleghiamo all'Italia, al calcio (o altri sport in vista) e ai protagonisti che lo popolano. Negli USA capita sempre più spesso, e soprattutto da quando Donald Trump è presidente, che lo sport si faccia politica. Sono stati molti quelli che si sono pronunciati contro i poteri forti e hanno portato avanti lotte di impatto sociale per cambiare le regole in gioco. Magic Johnson nel 1991 dichiarò di essere sieropositivo per rompere il tabù del silenzio e perché si combattesse il problema. Cassius Clay (Muhammad Ali) si fece voce dei neri, si rifiutò di combattere in Vietnam in polemica contro il governo e, secondo qualche leggenda che circola, buttò la sua medaglia d'oro conquistata a Roma per protestare contro il razzismo.

Il tennis non è un'eccezione a questa regola aurea che vuole i campioni esposti in prima linea in battaglie che hanno un valore per la società e per il miglioramento di questa. Il tennis, però, rispetto ad altri sport è quello che si è sempre contraddistinto per essere chiuso nei suoi club, per avere un'aria aristocratica e per selezionare il suo pubblico anche in base alla collocazione sociale. È valso ancora fino a Andre Agassi che era l'uomo punk del giro, quello che si presentava con la cresta colorata e i pantaloncini in denim, destando pure qualche scandalo. Tutto questo a dire che c'è quasi un valore aggiunto, perché le battaglie combattute qui per forza intrinseca hanno superato i limiti stessi da circolo-club e sono arrivate a un pubblico più vasto del previsto perché parlavano a tutti e tiravano fuori un'urgenza universale e sentita.

Billie Jean King nel 1970, anno in cui iniziano le vicende raccontate del film, era nel suo periodo d'oro: era una delle giocatrici più forti del circuito tennistico e si distingueva della altre per un certo spirito pasionario. Nell'ambiente era conosciuta come una sorta di sindacalista: stava combattendo già una battaglia perché il tennis fosse riconosciuto come professione di pari valore, per dignità e retribuzione, a quello degli uomini.

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Emma Stone nei panni di Billie Jean King in una scena del film

Quello che accadde a quell'epoca diede lo sprint finale a Billie Jean King e a quella che sembrava solo una battaglia interna al sistema. In quel momento alla direzione del Southwest Pacific Open c'era Jack Kramer, uno che in passato era stato tra i più grandi tennisti del mondo (nel 1947 aveva vinto Wimbledon), e per quel torneo aveva stabilito che il premio femminile ammontasse a 1.500 dollari, mentre quello maschile a 12.500. La disparità di genere, che oggi chiameremmo gender gap, era così palese che Billie Jean King non ce la fece a stare in panchina. In fondo, nell'animo, era una sindacalista che non avrebbe ignorato la spinta bellicosa che le aveva scatenato quella situazione.

Il principio di tutto era: se una partita femminile porta un pubblico pagante pari a quella maschile, perché le donne dovrebbero essere pagate di meno?

Beccati.

[Per dare un punto di riferimento il price money tra uomini e donne (singolare maschile e singolare femminile) è stato parificato nel 2007 a Wimbledon].

Con la racchetta in resta e con l'aiuto di Gladys Heldman, all'epoca proprietaria del più importante mensile specializzato, World Tennis, organizzò un torneo parallelo mentre un vortice di "dichiarazione medievali" (casa-figli-cena-marito) pioveva su di loro e sulle donne in genere. Radunò intorno a sé alcune delle più grandi tenniste del tempo, fece firmare loro un contratto per la una nuova lega, la Virginia Slims, e si gettò a capofitto nell'avventura. Su tutte le campionesse aleggiava il pericolo della squalifica dalla federazione che significava non poter partecipare ai grandi tornei e rimetterci soldi. I soldi che erano lo stipendio.

Qualcuno all'epoca scriveva «Le ragazze sono maggiorenni e vogliono le chiavi per uscire». I tempi erano maturi.

Billie Jean King, Yvonne Goolagong, and Virginia Wade, seated on a bench at the Wimbledon tennis club. (Photo by © Hulton-Deutsch Collection/CORBIS/Corbis via Getty Images)pinterest
Billie Jean King in primo piano

Questo fu solo un passo. Il peso di Billie Jean King aumentò con il contributo involontario, perché narcisistico, di Bobby Riggs, uno dei grandi del tennis che allora aveva più di 50 anni e sentiva la nostalgia del campo tipica di quei campioni che non sopportano l'assenza dell'adrenalina che fa vibrare le arterie.

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Steve Carell nei panni di Bobby Riggs in una scena del film

Riggs era un tipo controverso: uno con un debole patologico per la scommessa che nessun circolo anonimo o psicologo riuscì a contenere, un biscazziere compiaciuto e uno che, se non avessi visto sui campi da tennis, avresti incrociato quasi per certo su un tavolo di Las Vegas. Riggs faceva il suo gioco in tutti i sensi: giocava dove gli veniva meglio (ovvero sui campi da tennis), con le modalità che preferiva (ovvero quelle della scommessa) e con il piglio da one man show che, più che credere in quello che dice, lo fa per fare show-biz. Era quel maschio sciovinista, per sua stessa ammissione da smargiasso, a cui il pubblico femminile in campo appioppò il soprannome di "maiale". Insomma, in fondo in fondo, faceva il suo gioco. Voci di corridoio di spogliatoio, come riporta lo stesso Gianni Clerici (uno dei più grandi giornalisti esperti di tennis), dicono che avesse scommesso sottobanco per quella stessa partita. Contro di lui.

Era uno che faceva lo sbruffone così (e fa anche ridere):

WHEN BILLIE BEAT BOBBY -Starring Oscar- winner Holly Hunter as Billie Jean King and  as Bobby  Riggs, When Billie Beat Bobby tells the story of the 1973 male- versus-female tennis match watched and heard round the world.  When Riggs, a 55-year-old tennis hustler, challenged King, a 29- year-old female tennis star, to a Battle of the Sexes, the  match shook the foundations of American sports by dramatically  demonstrating that female professional athletes deserved equal  prize money   and equal respect. When Billie Beat Bobby airs as  an ABC Original on MONDAY, APRIL 16 (8:00-10:00 p.m., ET) on the  ABC Television Network.  (Photo by Robert Voets/ABC via Getty Images)pinterest
Bobby Riggs, quello vero, che gioca con due calici di birra
Tennis player Bobby Riggs dresses a woman for his match against Billie Jean King. Male chauvinist Riggs challenged King to the match as a pinterest
Bobby Riggs, quello vero, che gioca vestito da Cappuccetto Rosso

In questa storia di Billie Jean King ce n'è un'altra, come a formare una serie di lotte correlate tra loro come le bambole di una matrioska. Billie Jean era nata Moffitt e King era il nome del marito Larry. A lui rimase legata per anni, ma quegli anni furono anche quelli dell'incontro con Marilyn Burnett e della scoperta della sua omosessualità. C'erano troppe cose per cui combattere insieme e quella sulla libertà sessuale avrebbe messo in discussione gli sponsor, la sua stessa carriera e quella voce sugli spalti che aveva conquistato per le donne. I tempi erano meno maturi per quello.

Dalla Virginia Slims, primo embrione, è nata la WTA, Women's Tennis Association.

In quel frangente Billie Jean portò avanti quella del professionismo femminile per mantenere la voce alta, anni dopo lavorò sui diritti LGBT.

C'è un'ultima cosa da dire. Il tennis ha contato nella sua storia tre battaglie dei sessi. Quella che portò a casa i risultati fu Billie Jean King, prima di lei ci provò Margareth Court (nata Smith) contro lo stesso Bobby Riggs e dopo di lei tentò Martina Navratilova, un'altra grande del tennis che, oltre a essere omosessuale dichiarata, veniva anche dal blocco sovietico dell'est. Un posto mica facile per lei. La Navratilova fu sconfitta da Jimmy Connors nel 1992.

La verità è che, forse in una strana metafora cosmologica, la battaglia vinta una sola volta non è bastata. Ed è, oggi, troppo lontana nel tempo perché lasci i suoi residui migliori. Ben venga un film come La battaglia dei sessi per ricordarcelo.