Giacomo Giorgio è una piacevole sorpresa. Serio e misurato fino alla fine della nostra chiacchierata, si lascia andare all'incertezza della sua età solo quando si parla di cuore. La voce si affievolisce leggermente mentre ammette che sì, la paura che la gente gli si avvicini solo per la fama c'è. E che lui cerca di proteggersi come può perché si sente fragile (ma chi non lo è?) davanti al vero amore (spoiler: è single). Per il resto, potrebbe atteggiarsi a divo emergente della fiction italiana e snocciolare i numeri dei suoi ultimi successi: Mare fuori, Noi siamo leggenda, Per Elisa. Invece si presenta come un 25enne consapevole di quanto il mestiere d’attore, al di là dell’essere appealing per qualunque ragazzo della sua età, abbia un’importanza sociale: «Quando fai un film e chiedi al mondo due ore per vederlo, stai prendendo la cosa più preziosa che le persone hanno a loro disposizione, il tempo. Per ripagare questo oltre alla storia devi offrire un messaggio, raccontare qualcosa che non si dice o non si dice abbastanza. Perché il cinema può cambiare la vita della gente, è come una seduta dal terapeuta». Per lui è stato così: la passione per la recitazione lo ha portato, ancora bambino, da Napoli a Milano. La dedizione e il rispetto verso il suo sogno («Non ci sono mai stati piani B o C») gli sono valsi dapprima piccoli ruoli, poi nomi sempre più grandi (nel 2018 ha recitato con Colin Firth ne L'ultimo ritratto di Oscar Wilde) e infine la grande occasione: Mare fuori nel 2020, con il ruolo di Ciro Ricci. Da lì, il salto nelle fiction mainstream fino alla terza stagione di DOC- Nelle tue mani, il medical drama con protagonisti Luca Argentero e Matilde Gioli in arrivo l’11 gennaio su Rai1 (una produzione Lux Vide, società del Gruppo Fremantle, in collaborazione con Rai Fiction, i primi episodi sono stati trasmessi al cinema nel mese di dicembre). Nella serie Giacomo Giorgio diventa Federico Lentini, specializzando costretto dal padre a sei mesi di tirocinio nel reparto di Medicina Interna del Policlinico Ambrosiano di Milano prima di iniziare la bella vita nel suo lussuoso studio di oculistica.

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Foto Roberta Krasnig, Mua charlotte hardy per simone belli Agency, Total look Giorgio Armani

Conoscevi la storia di DOC?

«Sinceramente non l’avevo seguita ma sono appassionato da sempre del medical drama: tra le mie serie preferite c’è Dr. House e questa è un mix considerando anche Grey’s Anatomy. Come reference per interpretare Federico ho rivisto proprio Dr. House perché il mio personaggio è quadridimensionale: è scritto molto bene, c’è il tema della svogliatezza, è quasi costretto a fare i sei mesi di specializzazione solo per poter andare via. Poi c’è la linea paterna del rapporto che instaura con Andrea Fanti (il personaggio di DOC, ndr), la linea amorosa e quella medica, perché lui grazie all’Ambrosiano riesce ad amare la medicina, o forse no. Per me è stata un’esperienza forte, pregnante. Per prepararmi sono stato una settimana al Policlinico di Roma, nel reparto di medicina interna, ho visto operazioni, sono stato al pronto soccorso. Anche per Mare fuori ero andato al carcere di Nisida ma lì era stata una mia iniziativa. Questa volta invece è stata la produzione che mi ha consentito di vedere e imparare anche la gestualità dei medici».

L’impatto emotivo di questa preparazione sul campo?

«Il metodo che uso per preparami ai ruoli ha sempre un prezzo personale e nel caso di DOC è stato molto pesante perché durante gli otto mesi di riprese ho avuto a che fare con il pensiero delle malattie. Essere un dottore vuol dire avere un confronto quotidiano con la vita e con la morte. Ci sono stati dei momenti difficili: la prima volta che ho visto un’operazione durante la mia formazione al Policlinico sono svenuto. Era una cosa semplice: la rimozione di un melanoma alla tempia. Eppure mi sono ritrovato sul lettino, col saturimetro…».

Quanto ti somiglia Federico?

«Zero. Lui è una sorta di 'Chiattillo, il classico figlio di papà (il riferimento è al personaggio di Mare fuori interpretato da Nicolas Maupas, ndr). Io invece arrivo da una famiglia modestissima, con lui mi sono trovato spesso a fare delle cose che come Giacomo non avrei mai pensato: un’espressione, il tono di voce, un gesto, dei dettagli che nascono dal niente e lì c’è il lavoro dell’attore. Poi c’è sempre un po’ di te nel personaggio e del personaggio in te: Marlon Brando per esempio aveva un carisma leggendario che invadeva qualunque ruolo portasse sullo schermo. Ma questa è l’autenticità del mestiere».

Torniamo a Mare Fuori 4 (da febbraio, ndr) e al personaggio di Ciro Ricci. Nonostante sia un assassino è diventato talmente iconico che i fan volevano non fosse morto. E tu hai parlato di uno spin off…

«Te la dico tutta: Ciro è il protagonista della prima stagione. Il cattivo, il personaggio più difficile da interpretare perché il male affascina. Ma è anche il più leggendario, e questo lo dicono i dati relativi alla serie. Si è parlato tanto di uno spin off su di lui, poi in un’intervista mi hanno chiesto che ne pensassi e avevo detto che mi sarebbe piaciuto approfondire Ciro e la sua vita. Non tanto dentro Mare fuori che ha preso un’altra via, ma in altre situazioni, magari al cinema sarebbe interessante scoprire che è un personaggio anche bello nella sua complessità. Con una soluzione narrativa da inventare, in fondo non si sa se è morto davvero…».

Ma quindi ci spoileri qualcosa? Ciro è vivo?

«Qualunque sia la decisione degli sceneggiatori io sarò sempre molto felice di approfondire il personaggio e molto riconoscente nei confronti del pubblico. Non dico nulla ma fossero anche due scene, oppure otto o dieci io ci sarò sempre, per salutare chi mi ha permesso di essere un attore - come mi definisco io - con un ottimo inizio».

Degli altri progetti lavorativi cosa ci dici?

«Sono stato molto felice di aver fatto Noi siamo leggenda, è una piccola perla nel mare della serialità. Penso che arriverà un seguito, il mio personaggio vive in una famiglia che si vuole bene, con le caratteristiche di una commedia di Eduardo De Filippo. DOC non vedo l’ora che venga vista, spero di poter essere riconoscibile per chi fa davvero questo lavoro, che si possa rivedere in me. Come progetti per il futuro sono molto soddisfatto di Belcanto che sto girando in queste settimane, un racconto sul canto lirico e sui moti di Milano del 1848. Mi riporta alla mia storia teatrale, è una comfort zone per me, con un linguaggio che nelle serie tv non posso usare».

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Cosa pensavi di fare nella vita se non fossi riuscito con la recitazione?

«Io credo in questo lavoro come fosse una religione. Per me recitare è come essere cristiani. Non mi sono mai costruito alternative, credo all’importanza sociale e personale di fare questo mestiere. Alla possibilità di raccontare delle storie non con un approccio intellettuale e freddo ma prestando carne e sentimenti a qualcosa che succede nel mondo. Dopo la serie sulla storia di Elisa Claps sono andato a Potenza per una manifestazione e c’era tutta la città per strada, mi hanno detto anche grazie alla nostra fiction. È il potere del cinema, ci sono dei film che mi hanno cambiato la vita: Ultimo tango a Parigi, Nuovo Cinema Paradiso che mi ha fatto sognare un futuro, dalla mia stanzetta. Pensa anche alle serie tv e alla compagnia che ci hanno fatto durante il Covid. Voglio dire che da un punto di vista filosofico recitare è un mestiere fondamentale per la società. Soprattutto in questo momento storico: intorno a me vedo tanti giovani della mia età che hanno rinunciato alla prospettiva del futuro. Mio nonno è nato durante la seconda guerra mondiale, a Napoli, in una famiglia di 11 persone. Ma lui e poi dopo i nostri genitori avevano la speranza. Noi invece, quelli della mia generazione, abbiamo l’ipocondria, la depressione. Abbiamo bisogno di andare dallo psicologo ed è fondamentale farlo. Ma allora vuol dire che c’è una problematica sociale moderna».

Ho letto che nei tuoi personaggi cerchi l’umanità. La tua, quella di Giacomo, qual è?

«Non ne ho la più pallida idea, ma mi piace e la cerco tutti i giorni nelle situazioni e nelle persone che vivo. L’amore per esempio mi stupisce perché la capacità di amare è in pericolo, la vedo minata anche su di me. Credo che oggi sia molto difficile sapere amare, penso a un sentimento shakespeariano, totalizzante. Ed è invece una delle cose principali da ripristinare, da insegnare: il saper amare potrebbe aggiustare parecchie cose, e quando lo vedo intorno a me o mi succede questa cosa mi sorprende».

Sei innamorato?

«No, in questo momento non c’è una persona specifica perché mi sento molto fragile: mezzo napoletano e mezzo milanese, con il cuore e la passione della mia città ma la corazza esterna cinica e fredda del nord, perché qui a dieci anni è dove sono diventato uomo. Per questo ho paura e mi proteggo con una sfera privata composta da pochissime persone. La mia vita è cambiata rispetto al passato, è meravigliosa ma a tratti invalidante, se penso agli affetti. Vivo da solo, vedo poco la mia famiglia, ma ringrazio sempre di questa condizione nonostante l’investimento emotivo e fisico che metto in ogni progetto. Faccio un lavoro bellissimo, sono eternamente grato, ma a volte mi chiedo: esiste un prezzo per la propria vita? Perché l’attore prende la sua e la regala al cinema, al pubblico. O almeno, io faccio così. È l’unico modo che conosco».