La sento anche io quella paura.
L’ho sentita quando mi sono reso conto che le parole che facevo vibrare nell’aria facevano un salto più grande del tavolo della cena pieno di amici e compagni e intimità. Prendevano la rincorsa sui tasti del pianoforte, si lanciavano dalla finestra e appena mettevano i piedi sull’asfalto iniziavano a correre freneticamente entrando in casa di sconosciuti. Quell’intrusione, per la verità, mi ha regalato tante lusinghe e gratificazioni. «Grazie per le parole che mi hai portato dentro casa». «Non ti preoccupare se sono scappate, sono così belle che vorrei tenerle con me». «Grazie per averle fatte uscire». Altre volte però, come quando ti scivola il guinzaglio e il cane corre addosso a qualcuno che si sta godendo in solitaria la sua passeggiata, ho dovuto chiedere scusa. «Mi dispiace che le mie parole l’abbiano aggredita. Sono ancora cucciole, devono imparare che non si fa. Mi scusi».

La sento anche io quella paura delle parole.
Forse anche il fatto che la chiami paura è sbagliato, forse proprio la parola “paura” è uno di quei cuccioli che si è liberato e che ora devo riacchiappare. Dovrei dire “timore” piuttosto. Il timore, in effetti ci mette in guardia dalle potenziali conseguenze. La paura arriva sempre in ritardo, quando quelle conseguenze non sono più una possibilità ma un fatto.

Ho timore delle parole non per una qualche propensione difensiva alla vita in generale ma perché le rispetto. Le parole sono il mio lavoro, io sono un dipendente qualunque di quell’enorme azienda che le parole sono.

Le parole sono una compressione massima della realtà senza la quale per noi sarebbe impossibile capire con quale piede scendere dal letto la mattina o come baciare la bocca di chi amiamo o come stabilire la nostra identità davanti a chiunque ci ascolti. Sono un fatto serio da non prendere sottogamba. Sono dei giuramenti che ci facciamo tutti i giorni reciprocamente.
Quando alle parole diciamo «Certo che con voi non si può più dire niente», noi le insultiamo e non poco. Stiamo dicendo loro che in fondo non sono così potenti da doverle soppesare. Che noi di loro potremmo fare a meno. Ci ribelliamo come chi ignora che sono proprio quelle parole a essere la gravità senza la quale voleremmo via dal suolo.

Eppure, in fondo, lo sappiamo che le parole sono così potenti che di secolo in secolo, di mese in mese, di giorno in giorno perfino ci fanno vedere un pezzo di sensibilità collettiva che non conoscevamo. Come quando ci insegnano la matematica: prima i numeri, poi la somma, la sottrazione, la divisione, la moltiplicazione e solo tanti anni dopo arrivano gli integrali e i logaritmi e così via.

Il fatto che le nuove sensibilità che la parole ci hanno messo sul banco come nuovo programma di studio siano più complesse e intricate non ci giustifica a dire che allora non si può più dire niente, che le parole sono troppo esigenti, che si prendono troppo sul serio.

Quelle parole ci hanno aperto la porta di un mondo che nemmeno immaginavamo.
Lo sento anche io quel timore.
Lo sento perché mi rendo conto che in realtà si può dire molto più di prima ma, rispetto a prima, la scelta delle parole giuste da usare richiede più attenzione ed educazione ed empatia e rispetto e tante parole ancora più belle che vorrei già conoscere.