“Storia da singhiozzo” è l’espressione densa e sintetica con cui durante una famosa intervista apparsa sulla tv svedese nel 2000, Eminem spiegava le motivazioni per le quali non volesse imporre a nessuno i propri drammi, preferendo invece evidenziare le cose che non funzionavano e prendersene gioco. Ma Mattia Belardi che più comunemente abbiamo chiamato e chiamiamo Mr. Rain, e la cui storia si interseca con quella del rapper americano negli anni dell’adolescenza, ne è d’accordo solo in parte. «Penso che raccontare episodi spiacevoli della propria vita sia un gesto altruista di amore verso gli altri», tanto che lui lo fa di continuo, racconta ogni cosa che sia piacevole o meno per esorcizzarla anche involontariamente, come il periodo più brutto che abbia mai attraversato e che nel 2021 dopo i primi lavori e i primi featuring noti si è incanalato nelle barre di “Fiori di Chernobyl”. La vita cambia con e come uno strappo, a condizione anche imperfette quando sembrava irrealizzabile uno sconvolgimento, e infatti lo scorso febbraio a trentun anni Mr. Rain si è ritrovato sul podio al terzo posto dell’ultimo Sanremo con la sua “Supereroi”, che ancora oggi si aggira nella top one di Spotify, YouTube, Amazon Music e anche TikTok. «La vera vittoria è stata quella di portare sul palco dell’Ariston una canzone dedicata all’importanza dell’onestà e di riuscire a chiedere aiuto nei momenti più peggiori», trasformando la fragilità in una risorsa.

Dopo il disco Fragile, canzoni come “Meteoriti” che affondano nello stesso immaginario catastrofico e suggestivo di Christopher Nolan o come l’ultima, “La fine del mondo” cantata insieme a Sangiovanni e uscita il 12 maggio, senza posa altezzosa o auto commiserazione, la voce e le parole sono di chi ancora non ci crede. L’infanzia a Brescia, la separazione dei genitori e poi a suonare in tutti i bar della zona con una piccola crew con cui sopportare anche i locali vuoti, il piano e la chitarra imparati da solo guardando ore di tutorial fino alla partecipazione e all’abbandono di X-Factor nel 2013. Della sua vita Mr. Rain non cancellerebbe nemmeno le cicatrici a cui deve tutto, scegliendo «sempre la strada più lunga» che oggi lo ha portato in giro per i club dal 6 aprile con le date sold out e prossimamente al nuovo album e al tour che toccherà per la prima volta anche il forum di Assago a novembre. E dimostrando quanto spogliarsi, spalancare le finestre sulla propria storia e trovare il coraggio di permettere a qualcun altro di sporgervi e guardarci dentro, possa azionare i meccanismi giusti.

mr rainpinterest
ABC
Mr Rain è il volto della nuova cover digitale di Cosmopolitan. Foto di Claudio Foco, styling di Mimina Cornacchia. Assistente styling, Maria Attardi e Alessia Simonte. Blazer, Ferrari

Ti aspettavi tutto questo?

«Assolutamente non così tanto. Quando ho scelto di presentare “Supereroi” a Sanremo pensavo di farmi la mia gara parallela da outsider quale sono. Pensavo va beh vado a Sanremo, spero di riuscire a entrare nel cuore di qualche persona, è una cosa che voglio fare da sempre e quindi questo mi basta».

E invece ti sei ritrovato sul podio.

«Terzo posto. Nemmeno se lo avessi immaginato. È stato uno shock, non pensavo di poter piacere cin questo modo. I messaggi che mi mandano ancora, come se “Supereroi” si fosse fatta spazio tra le varie vite delle persone, sono la vittoria più grande».

Cosa ti scrivono?

«C’è chi ha vissuto situazioni simili, chi voleva provare a chiedere aiuto o a ricostruire qualcosa di rotto con un familiare. Per me è la soddisfazione più grande tanto che durante ogni live ringrazio sempre tutti quelli che hanno creduto e stanno credendo nelle mie parole, mi hanno votato, magari mi seguono da anni o non mi seguivano per niente, e adesso hanno preso questa canzone e ci hanno trovato il loro senso».

Ti ricordi, c’eravamo incontrati a Sanremo durante le interviste con i big in gara. Mi hai detto, dopo la prima esibizione della prima serata all’Ariston, che aver cantato insieme al coro di bambini che ha accompagnato la tua canzone ti bastava per essere contento.

«Non ero arrivato lì con poche aspettative, ma diciamo che erano molto basse. Non era “il pezzo per Sanremo”, sai come si dice. Era semplicemente il mio pezzo, il solito, nelle mie corde e che mi rispecchiava completamente. Nessun disco, nessuna strategia. Sto vivendo un sogno in cui capisco poco come ci sono arrivato. Anche il Forum, mai mi sarei aspettato di riuscire a fissare una data in tempi così brevi. Per dirmelo il mio team mi ha bendato».

Ti hanno rapito?

«Te lo giuro, mi hanno bendato e portato al forum, “Mattia, lo facciamo”. Sarà una festa, voglio che più che un concerto sia un’esperienza. Ci sto già lavorando tanto, tra l’altro sarà anche il giorno prima del mio compleanno».

Il 12 maggio esce il nuovo singolo, “La fine del mondo”, la canti insieme a Sangiovanni. Titolo impegnativo.

«Parla di una relazione tossica che ti fa soffrire ma di cui allo stesso tempo non puoi fare a meno. È uno sfogo personale. Ho conosciuto Sangio, l’ho incontrato più volte e ho pensato che potesse dare un valore aggiunto al pezzo. Tra l’altro io all’inizio non volevo nemmeno cantare il ritornello, era troppo alto, non ero nella mia comfort zone. Alla fine l’abbiamo fatto e la canzone è venuta fuori subito».

E invece ora in amore come va?

«Serenità, ho una storia che va avanti da sei anni».

Una delle ultime cose che hai detto pubblicamente l’hai detta dal palco del concerto del Primo Maggio. Hai spiegato che avresti voluto affrontare un tema diverso rispetto a quanto fatto lo scorso anno con la salute mentale, ma che dovevi riprenderlo perché non è cambiato niente a distanza di 12 mesi. Parlavi di te o di tutti?

«Ho cercato di informarmi e ancora tantissime persone, nonostante abbiano fatto richiesta di supporto e aiuto, non hanno ricevuto nulla. A essere riusciti a sfruttare il bonus psicologico sono stati veramente pochi. Quindi, cos’è cambiato? Nulla. Se ne deve parlare di più anche sui palchi, specialmente in questo periodo. Volevo parlare di altro ma ho ritenuto giusto riproporre lo stesso focus».

Alla fragilità hai dedicato un album e un singolo. Pensi sia ancora vissuta con un certo stigma, mi riferisco soprattutto al genere maschile e alla narrazione dell’uomo che non può mai andare in pezzi?

«Lo vedo tantissimo, fino a qualche anno fa sentivo la pressione di tutto questo anche su di me, rimanere solido, non mostrare mai segni di cedimento. Da quando ho capito che aprirmi e far vedere le mie fragilità mi rendeva invece più sereno, mi è cambiata la vita, ho sentito un peso in meno. Lo dico in ogni live, dobbiamo trovare il coraggio di mostrarci per come siamo. Se non molliamo mai quest’armatura non riusciremo mai ad avere relazioni sane, nemmeno con gli altri. È una cosa che ti danneggia e danneggia le persone che ti circondano».

«Ho fatto sempre musica per aprirmi agli altri, e infatti la mia è più focalizzata sul testo che su altro. Le mie canzoni sono come lettere»

Qual è stata la prima volta che ti sei messo a nudo veramente?

«Quando ho scritto “Fiori di Chernobyl”, quello è stato l’inizio di tutto. Anche se ho sempre cercato di mostrarmi in tutti i pezzi, non lo facevo totalmente. In “Fiori” ho iniziato a fregarmene e dire quello che pensavo senza filtri. È una canzone scritta a causa di un periodo duro, me ne stavo chiuso in casa in un loop infinito di problemi che mi sembravano irrisolvibili. Mi ero costruito una prigione mentale in cui ero solo al mondo, anche se non lo ero davvero».

Quando bisogna chiedere aiuto?

«Quando arrivi all’ultima goccia che ti spacca gli argini ed esplodi. Io ho fatto così con la terapia. Non ce l’avrei mai fatta senza prima toccare il fondo. Trovare la volontà di farsi aiutare può essere più complesso che uscirne».

Ma per un artista, avvertire questa parte personale tempestosa e vulnerabile non può essere anche un vantaggio?

«Veicolata, sì. Se non sentissi la mia fragilità non farei probabilmente questo lavoro, non avrei mai scritto quello che ho scritto e farei forse un’altra vita. Io la musica l’ho sempre, diciamo, sfruttata per alleggerire il peso emotivo che mi portavo. Quello che non riuscivo a dire agli altri, a spiegare, provavo a farlo attraverso i testi. Alle mie cicatrici devo tutto».

Dici che senza le tue paure non avresti mai scritto una canzone. Come te lo sei tenuto stretto questo sogno aggrappandotici fino a renderlo reale?

«Sentivo la necessità di autoprodurmi per dare una visione chiara del mio progetto e di chi ero. Ho fatto tutto da solo, a 360°, ho imparato a suonare il pianoforte guardando milioni di tutorial su YouTube perché non avevo i soldi per un insegnante, anche per la chitarra e il violino che ho provato a suonare in pandemia. Ore e ore di tutorial, tutto da solo, tutto in funzione del mio progetto, ci ho dedicato la mia vita e sarà sempre così. Ci ho messo anni. Prima giravo e mi montavo pure i video, ero veramente una piccola factory in un’unica persona».

La musica c’è stata sempre?

«Mia mamma suonicchia il piano, ma io ho preso una via parallela facendomi gli affari miei. Ho iniziato a scrivere canzoni perché ero fan di Eminem. È anche il motivo per cui mi sono fatto biondo per la prima volta, ce l’ho pure tatuato. Tre tatuaggi. Era come un movimento, dalla facilità con cui raccontava le cose alle sue parti strumentali. Poi ho visto 8 Mile e ho detto, ma lo voglio fare pure io».

Ma quindi sfatiamo il mito che Mr Rain si chiama così perché scrive solo quando piove, e dimmi che c’entra qualcosa “Rain Man” di Eminem.

«Mai [ride, nda]. Andavo alle superiori e avevo iniziato senza un nome. Scrivevo delle cose e non sapevo come chiamarmi, casualmente mi sono reso conto che scrivevo quando pioveva e basta. Succede anche adesso. E pensa che quei pezzi iniziali li ho cancellati tutti».

Volontariamente?

«Eh sì, mi sarebbe piaciuto risentirli ma li ho eliminati, tranne uno che sarà perso in qualche hard disk nell’etere. Li facevo ascoltare ai miei amici che erano super gasati».

Poi cos’è successo?

«Ho iniziato a fare dei piccoli live, una cosa come 200 live in qualsiasi bar, locale, ristorante di Brescia, tutto. Mi ha insegnato tantissimo, anche a sostenere situazioni sgradevoli. Una volta mi è capitato di suonare in un locale vuoto, con solo cinque o sei persone ad ascoltarmi. A posteriori penso che mi abbiano dato un sacco di punti per dopo».

So che sei cresciuto in una famiglia praticamente matriarcale.

«Mia madre, che è svedese, e poi tre sorelle. Kymberly, Jennifer e Katheen 17. Il mio nome l’ha scelto mio padre che è italiano. Lui e mia mamma si sono separati quando avevo sei anni».

Qual è la cosa più importante che si impara dalle donne?

«Prima parlavamo della narrazione stereotipata dell’uomo forte. Io ho imparato il contrario, anche se ci ho messo 30 anni a metterlo in pratica e a capirlo. Vedevo loro, molto più libere e più consapevoli delle proprie fragilità tanto che le trasformavano in forza».

mr rainpinterest
ABC
Foto di Claudio Foco. Styling di Mimina Cornacchia, assistente styling, Maria Attardi e Alessia Simonte. Camicia, Fendi.

Che adolescente eri?

«Chiuso. Per i fatti miei, con le mie passioni, una cerchia ristrettissima di amici, meno di cinque. Ho sempre provato ad appassionarmi alle cose e quando ho trovato la musica mi ci sono buttato di testa e non ne sono più uscito».

Il primo ricordo che hai?

«Non ne ho idea».

Neanche quello più bello?

«Zero. Non ho memoria, non mi ricordo neanche le strofe delle prime canzoni che ho scritto. È che le canzoni, per esempio, le scrivo quando ho bisogno di dire qualcosa a qualcuno. Per mia madre ho scritto “I grandi non piangono mai”, per la mia ragazza “Ipernova”, quando devo dire una cosa a una persona a cui tengo e non riesco a confidarmi, scrivo».

Però allora devi avere tanti pezzi in cassetto.

«Ho fatto sempre musica per questo, e infatti la mia è più focalizzata sul testo che su altro. Le mie canzoni sono lettere che spedisco a chi voglio che le legga».

Qual è la lettera più difficile che hai scritto?

Sono più lettere. Sicuramente “Fiori di Chernobyl” che è a me stesso. E poi “A forma di origami” che è per mio padre.

Sai che c’è una frase di “Rain Man” in cui Emina canta «il mio obiettivo non era quello di diventare ciò che sono diventato, con questo livello di fama». Pesa di più il successo o non riuscire a ottenerlo?

«Penso che entrambe le cose abbiano lati positivi e negativi e che la popolarità non c’entri niente. Io volevo il successo ma non per i dischi di platino che sono solo una conseguenza, lo volevo per entrare nella vita delle persone».

E in amore, si impara di più da una fine di una storia o dall’opposto, quando ci si sente protetti?

«Ti rispondo allo stesso modo. Da entrambe. Amore vuol dire trovare qualcuno con cui poter essere sé stessi, che finisca bene o male basta questo per insegnarci tutto».