Il 15 marzo è dedicato a sensibilizzare sui Disturbi del Comportamento Alimentare e fortunatamente, negli anni, questa data sta assumendo sempre maggiore rilevanza. Il fenomeno, del resto, ha una portata impossibile da ignorare, con 3 milioni di persone colpite in Italia secondo l’Istituto Superiore della Sanità. Ma come parliamo oggi di Dca? Come ne parliamo in una cultura che, nel frattempo, ci propone diete e esercizi per spingerci ad aspirare a un certo tipo di corpo? Spesso parlando di Disturbi dell'alimentazione si tralascia il ruolo della diet culture, del valore morale che la nostra società finisce per attribuire al peso e della discriminazione verso i corpi grassi.

«I Disturbi Alimentari», spiega a Cosmopolitan Aurora Caporossi, Founder e Presidente di Animenta, associazione non-profit che si occupa di disturbi alimentari analizzandoli nella loro complessità, «sono malattie che hanno un'eziopatogenesi multifattoriale, il che significa che ci sono una serie di cause e concause che portano alla loro insorgenza. I fattori sono biologici, psicologici e sociali». Secondo Caporossi, il contesto sociale in cui viviamo è determinante: la grassofobia, lungi dal promuovere uno stile di vita sano, lavora su senso di colpa e stigma spingendoci a conformarci a specifici canoni estetici. Tutto questo ha delle conseguenze sia sull'insorgenza dei Disturbi Alimentari sia su come questi vengono percepiti, rappresentati e persino curati. «Per quanto i Dca siano disturbi psichiatrici», continua Caporossi, «ripartire dalla componente sociale, dal corpo e da come manipoliamo il corpo è fondamentale per capire perché sempre più ragazzi si ammalano di disturbi alimentari, ma soprattutto per capire perché sempre più persone hanno un rapporto così complesso con il proprio corpo».

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Che legame c'è tra Dca e grassofobia?

«Tendenzialmente, nei disturbi alimentari, c'è un dolore molto profondo che non riesci a esprimere a parole e che esprimi attraverso questo rapporto difficile con il corpo. Il fatto è che oggi il corpo è diventato la matrice del racconto principale: siamo una società fortemente corpo-centrica e grassofobica. Siamo ossessionati dal corpo degli altri, da quello che le persone fanno per avere un certo tipo di corpo, che tendenzialmente è un corpo magro, che rientra in certi standard. Così, chi ha un fisico diverso si trova magari a ricorrere a una dieta che può essere un primo fattore di rischio. Alla base c'è la paura di prendere peso, di ingrassare che è legata inevitabilmente a un atteggiamento grassofobico e a questa continua pressione sull'estetica».

"Ci si ferma al corpo, ma il corpo non racconta tutta la storia di una persona"

Lo stigma verso i corpi grassi ha conseguenze anche sulla diagnosi e sulla cura di Dca?

«La grassofobia ha contribuito a una narrazione dei disturbi alimentari spesso stereotipata che li racconta solamente attraverso storie di anoressia nervosa, attraverso corpi magri ed emaciati. In realtà, dati alla mano, solo il 10% di tutte le persone che nel mondo soffrono di un disturbo alimentare ricevono una diagnosi di sottopeso. Questo significa che la rappresentazione dei disturbi alimentari non è in linea con quella che poi è la realtà. Quindi molte persone non riescono ad accedere alla diagnosi perché non vengono considerate abbastanza gravi, come se non avessero il peso ideale per soffrire di un Dca. Il fatto è che non esiste il peso ideale per soffrire di Dca. L'indice di massa corporea da solo non è un indicatore completo. Tantissime persone con corpi grassi non vengono diagnosticate, molte volte non vengono credute. Ci si ferma al corpo, ma questo non racconta tutta la storia di una persona».

Gli stereotipi possono condizionare anche i professionisti?

«C'è un forte stigma clinico che molti professionisti hanno verso i corpi non conformi. Servirebbe un approccio più intersezionale alla cura dei Dca. Ad esempio c'è ancora l'idea che siano malattie femminili quando, in realtà, i Dca sono altamente democratici, c'è il discorso dei corpi grassi che facevamo prima e ci sono spesso atteggiamenti transfobici a livello di diagnosi».

Si sente spesso parlare di anoressia nervosa, quali sono, invece, i Disturbi del Comportamento Alimentare di cui si parla meno?

«C'è il Binge Eating Disorder che è uno dei disturbi alimentari più diffusi ma poco considerati perché molte volte è associato a una mancanza di forza di volontà o all'idea che una persona si abbuffa perché è pigra. In realtà né il binge eating né gli altri disturbi alimentari sono una questione di forza di volontà, perché nessuno sceglierebbe mai di ammalarsi. C'è l'ARFID, il disturbo evitante-restrittivo dell'assunzione di cibo che caratterizza i bambini, ma in realtà anche molti adulti ed è difficile da individuare perché si connota per una selettività alimentare in base, ad esempio, al colore o alla consistenza del cibo che, soprattutto nei bambini, viene spesso associato a dei capricci. C'è la Vigoressia, nota anche come Complesso di Adone, che non è riconosciuta come disturbo alimentare, ma è una sottocategoria del disturbo ossessivo compulsivo e si connota dal fatto che una persona non percepisce il proprio corpo come abbastanza muscoloso e deve sempre aumentare la massa muscolare».

Ultimamente si parla di più anche di Ortoressia.

«Forse è uno dei Dca più normalizzati: si tratta dell'ossessione per il cibo sano, il cibo di qualità. Il problema è che noi oggi, al termine sano, abbiamo dato una connotazione ben precisa: per noi è sano un alimento che ha poche calorie, per noi è sano un corpo magro. In realtà non funziona così, anche perché non possiamo dire che una persona è sana o non sana solamente dal suo aspetto estetico. Un corpo magro non è necessariamente sano e un corpo grasso non è necessariamente un corpo malato. La stessa obesità (che non è considerata un disturbo alimentare) è anch'essa una malattia complessa e multifattoriale mentre spesso viene descritta come un'epidemia, come un'infezione che si "attacca"».

Sta cambiando la narrazione sui Dca?

«Sicuramente. Ci sono tantissimi progetti come Animenta e tantissimi professionisti che fanno un grande lavoro sui social media. In televisione, invece, è diverso: molte volte si tende a estremizzare la malattia a fare vera e propria pornografia del dolore. Il problema è che diciamo sempre che i disturbi alimentari non sono solo questione di corpo e cibo, ma finisce che è attraverso il corpo e il cibo che li raccontiamo. C'è un problema nella narrazione e raccontare queste malattie nel dettaglio porta l'effetto opposto, a dei meccanismi di emulazione e di confronto che non sono assolutamente sani. Proprio per questo Animenta nasce dalle storie e ha l'obiettivo di trovare nuove parole e immagini con cui raccontare questa malattia. Abbiamo la necessità di far capire che non c'è un solo tipo di corpo che ci racconta il Disturbo del Comportamento Alimentare. È una grande sfida che spesso non si confà alle regole mediatiche».

"Diciamo sempre che i disturbi alimentari non sono solo questione di corpo e cibo, ma finisce che è attraverso il corpo e il cibo che li raccontiamo"