A volte, guardando Mare Fuori, per un attimo ci si dimentica della realtà a cui si ispira la serie: si segue il flusso dei personaggi, degli amori e degli intrighi. A tratti ci sembra che l'IPM dov'è ambientata la storia possa essere un bel posto e che per i ragazzi la reclusione sia persino meglio della libertà. «È ovviamente una versione romanzata della realtà, ma bisogna stare attenti a non creare percezioni errate», spiega a Cosmopolitan Marika La Pietra, avvocata penalista, referente regionale Osservatorio Minorile Antigone Campania e Consulente diritti dei minori. In questi giorni si parla molto del crescente numero di ragazzi negli Istituti penali per minorenni. Gli IPM sono 17 in tutta la Penisola e ormai sovraffollati, anche se i dati sulla criminalità minorile risultano più o meno stabili. Secondo l'associazione Antigone, che dal 1991 si occupa dei diritti dei detenuti, sono gli effetti del nuovo decreto Caivano e di un approccio alla giustizia penale minorile che mira più a punire che a rieducare venendo meno agli stessi principi su cui dovrebbe fondarsi. Una realtà che si discosta molto dalla fiction.

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Rai Fiction Picomedia

Iniziamo dal principio: cosa succede quando un minore compie un reato?

«A seconda del reato di cui stiamo parlando si prevedono o meno delle misure cautelari, misure che riguardano la limitazione della libertà già prima della condanna vera e propria. Dunque il minore può venire preso in carico da una comunità, da un IPM oppure dalle figure genitoriali di riferimento. Dipende dai casi. Poi il processo continua fino alla sentenza del giudice che stabilisce l’assoluzione o la condanna e relativa pena. Esistono anche percorsi più virtuosi come quelli della messa in prova che è un’ipotesi che porta all'immediata fuoriuscita del minore dai meccanismi del processo penale: dopo un periodo di prova si ha direttamente il provvedimento per estinzione del reato. È come una seconda possibilità e si è visto che aiuta a diminuire il rischio di recidiva».

Il carcere nella narrazione mainstream viene spesso visto come l’unica soluzione…

«La giustizia minorile si basa su dei principi per i quali risulta fondamentale evitare la stigmatizzazione e rispettare quelle che sono le esigenze e la personalità del minore. Il carcere - così come per gli adulti, ma a maggior ragione per i minori - resta quindi la soluzione estrema. Questo perché parliamo di personalità in divenire, non pienamente mature, non pienamente coscienti e responsabili rispetto a quelle che sono state le loro condotte. Non si può pensare di incidere soltanto a livello punitivo, il focus dovrebbe essere innanzitutto sull'azione preventiva per evitare a monte che il minore entri nel circuito deviante».

Quali sono le alternative al carcere?

«Si chiamano misure penali di comunità. Ne esistono di vario tipo: affidamento in prova al servizio sociale, l’affidamento in prova “misto” con detenzione domiciliare, la detenzione domiciliare in senso stretto».

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Sa dirci quali sono i reati più comuni tra quelli commessi dai ragazzi degli IPM italiani?

«Si tratta di dati rimasti piuttosto stabili negli ultimi anni. Anche se dal 2020 c’è un aumento di reati violenti contro la persona, i reati maggiormente commessi dai minorenni in carcere sono reati quelli legati al patrimonio, quindi rapine o furti e quelli legati alle sostanze stupefacenti. È importante poi sottolineare che la maggior parte dei minori è in carcere per misure cautelari, solo in pochi hanno condanne definitive».

Questo si lega anche al dibattito sul nuovo decreto Caivano, proposto a seguito dello stupro di gruppo nell'omonimo comune campano

«Esattamente. Tutti i principi che ispirano la giustizia penale minorile sono stati messi seriamente in discussione. Il decreto amplia la sfera di applicazione delle misure cautelari e si focalizza così sulla fase punitiva e non sulla prevenzione. Aumenta il numero delle condotte punibili come reato, alza il minimo della pena per determinati reati ed estende ai minori l’applicazione di alcuni provvedimenti amministrativi. Questo sta portando a un sovraffollamento anche se non sono di fatto aumentati i reati: oggi sono oltre 500 i minori in carcere, contro i 243 dell’anno scorso».

Parliamo della vita negli IPM: i ragazzi possono studiare?

«In linea di massima in tutti gli IPM è garantita la conclusione della scuola dell'obbligo e l'accesso poi alle scuole di ordine superiore. Se invece un detenuto o una detenuta intende iscriversi all'università deve esserci un protocollo d'intesa tra il il centro di giustizia minorile e l'università. Questo può essere un problema in caso di trasferimento. Ad esempio ho conosciuto un minore neomaggiorenne all’IPM di Airola (Benevento): nel carcere dove si trovava precedentemente aveva iniziato il primo anno di Economia, ma con il trasferimento ad Airola purtroppo il percorso universitario si è interrotto perché manca appunto il protocollo d'intesa. Da più di un anno il ragazzo sta continuando a studiare perché gli sono stati forniti i programmi universitari, ma non può più dare gli esami».

Che altre attività vengono previste solitamente nel corso della giornata?

«Ancor più degli adulti i minori necessitano di una certa assistenza, di un accompagnamento alla presa di coscienza e alla responsabilizzazione e di un percorso fatto di attività che li portino alla reintroduzione nella società. I programmi educativi e per la socializzazione variano a seconda del carcere. L'istituto di Nisida (Napoli), ad esempio, prevede una quantità infinita di laboratori: si va dal laboratorio di coscienza del sé al laboratorio di ceramica, c’è il panificio, il laboratorio di ristorazione, quello di pizzeria, ma in altri IPM più decentrati possono essercene molti meno».

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Il laboratorio di pizzeria ricorda molto quello di Mare Fuori, ha notato delle incongruenze tra la serie tv e la realtà?

«Ovviamente si tratta di un racconto romanzato. Sicuramente la commistione tra ragazzi e ragazze non è frequente. In caso di istituto misto le attività possono essere fatte insieme, ma attualmente in Italia c’è n'è soltanto uno e in generale le ragazze detenute in tutto il Paese sono davvero poche. Dalla serie sembra anche molto facile entrare e uscire dall’istituto».

Non è così?

«Non è pensabile riferirsi al carcere come un posto in cui uno entra e esce. I permessi sono soggetti a delle validazioni, a delle verifiche legate al buon esito dei programmi trattamentali, dei risultati scolastici, dell’andamento del processo. In più la maggior parte dei minori tende ad aggravare la propria posizione processuale all'interno del carcere. La limitazione della libertà porta a crisi di nervosismo, magari legate alle udienze o all'avvocato che non viene a fare il colloquio o anche un disagio familiare o un lutto e possono dare origine a nuovi reati. C'è anche un grosso problema di uso a abuso di psicofarmaci e regolatori dell'umore di cui si parla poco».

In Mare Fuori si vedono diverse evasioni. Nella realtà è qualcosa che succede?

«L'anno scorso ci sono state due evasioni dal carcere di Airola, un minorenne e un neomaggiorenne. Il minorenne è stato preso poco dopo e trasferito in un altro carcere. Per quanto riguarda Nisida, c’è stato un tentativo di evasione a giugno. In generale il carcere ha sistemi di sicurezza non così facili da eludere, sono molto più comuni altri eventi critici come atti autolesionistici, lesioni ai danni del personale in servizio, tentativi di suicidio».

I trasferimenti sono molto comuni?

«Non dovrebbero perché uno dei principi che ispira la giustizia minorile è proprio quello della territorialità della pena. Il minore che è legato a un territorio e ha una rete sociale su quel territorio non dovrebbe essere allontanato. Se viene trasferito rischia ad esempio di trovarsi lontano dai suoi affetti e di non avere la possibilità di fare colloqui a meno che le persone autorizzate non facciano centinaia di chilometri. Purtroppo spesso questo principio non viene rispettato, specie per quanto riguarda i minori stranieri».

Secondo lei a oggi quali sono i principali problemi della giustizia minorile?

«L’elenco sarebbe lungo, basti pensare che per i minorenni non esiste un codice penale ad hoc, ci rifacciamo a quello previsto per gli adulti e poi modellato sui minori. C’è anche una cattiva trasmissione mediatica di quelli che sono i fenomeni legati ai minori: pensiamo all'utilizzo di termini come “baby gang” o la parola “criminale” associata a un minorenne che sono assolutamente stigmatizzanti. E poi esistono degli strumenti legislativi come il decreto Caivano di cui abbiamo parlato che sono contrari ai principi stessi che hanno ispirato la giustizia minorile. Servono programmi trattamentali studiati ad hoc sulla personalità del minore e una presa in carico che sia preventiva e di sostegno alle famiglie, che legga la commissione dei reati da parte dei minorenni come l'espressione di determinati disagi».

Pensa che serie tv come Mare Fuori possano aiutare a parlare del problema?

«È importante che se ne parli, ma i messaggi che vengono veicolati dovrebbero essere più aderenti possibile alla realtà, mostrando anche quegli aspetti che spesso si preferisce non guardare».