Dentro al suo zaino, piccolo o grande che sia, c’è sempre spazio per un taccuino. Scrivere le piace, la rilassa. Spesso la aiuta pure a sbrogliare matasse di pensieri aggrovigliati. Che messi su carta, fatti d’inchiostro, è come se prendessero vita, sciogliendo il blocco e liberandola dall’ingorgo. Perché per Ester Pantano la libertà è una cosa seria. «D’altronde leggere la natura intorno a noi, per orientarsi, ha qualcosa di magico», ci racconta l’attrice siciliana, che ha attraversato il Marocco in moto con una possente Tuareg 660, restyling della mitica off-road Aprilia. «Una guida, nel deserto, mi ha raccontato che un tempo, quando un nomade si perdeva, era solito chiudere gli occhi, stare dentro di sé, prendersi il tempo per concentrarsi e uscire dalla confusione. Quando li riapriva, guidato dagli astri e dall'ambiente intorno, ritrovava la strada».

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Ester Pantano

Io invece ti chiedo di chiudere gli occhi e di tornare con la mente al tuo ricordo più lontano legato alle due ruote

«Devo tornare indietro fino al motorino PegPerego, da bambini. Che in realtà, ora che ci penso, era un quad: scelsi quello invece della classica macchinina. Poi, naturalmente, in adolescenza c’è stato lo scooter, un Scarabeo 50 con cui andai subito sull’Etna nonostante avesse i fermi: per me è stato il primo momento di vera indipendenza, di libertà. Non dovevo più stare bloccata nel traffico, sentivo di poter andare dove volevo. Portando, stampate in testa, le foto di mio papà che andava in moto».

Allora è lui che ti ha tramandato la passione, possiamo dirlo?

«In verità ha cercato in tutti i modi di non passarmela (ride, ndr): quando mia mamma è rimasta incinta, ha venduto le moto. Entrambi hanno deciso di rischiare meno, sentendosi indispensabili per un altro tipo di progetto, insieme. Credo però che quando una cosa ti piace davvero tanto, volente o nolente, la trasmetti. Io ho a lungo desistito dal prendere la patente per la moto, poi il desiderio ha avuto la meglio».

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Ester Pantano


E tuo papà come l’ha presa?

«Male (sorride ancora, ndr). Tra l’altro gli ho detto che le prime guide volevo farle con lui, nonostante fosse contrario: così prendiamo una moto a noleggio, ci diamo appuntamento al mattino per fare delle prove nelle stradine vicino casa, ma ancor prima che mi svegliassi lui era già in sella a divertirsi. Aprii gli occhi sentendo il rumore della moto».

Quando è arrivata la chiamata per il viaggio nel deserto, è rimasto calmo?

«Mi conosce bene, sa quanta voglia abbia di esplorare il mondo, buttarmi nella natura incontaminata dove devi solo stare nella vita. In un’intervista lo dissi pubblicamente che per me quel tipo di viaggio sarebbe stato un sogno, la mia dimensione. Così quella sera, quando è arrivata la telefonata, lui mi ha guardato serissimo e mi ha detto: “Sai che non sono d’accordo, ma sono felice che tu sia felice”. Da lì, non mi ha chiesto più nulla».

C’è un pensiero che ti ha accompagnata prima della partenza?

«Ero tipo una bambina, la parte dell’entusiasmo era molto più forte del senso del rischio. Anche quando sono stata a Grazzano, da Enduro Republic, a fare i primi test sulla moto. Ricordo poi di aver fatto un sogno interessante: entravo nuotando dentro una balena, che però non mi mangiava. Vivevo lì, in un altro microcosmo. E mi sentivo protetta, non contaminata, isolata: lo interpreto come possibilità di espressione in un mio spazio. Ero felice».

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Questione valigia, invece?

«Ero ferma a Bologna da un mese per girare una serie: il giorno stesso che ho finito le ripresa, ho chiuso i bagagli e ho raggiunto il gruppo che era già in viaggio. Alcune valige le ho spedite a casa, dietro ne avevo una con roba che non ho mai utilizzato: in moto, nel deserto, impari subito il gusto per lo stretto necessario, non ti servono cose inutili. Per me è bellezza pura: hai una giacca, usi soltanto quella e non ti pesa».

Capitolo difficoltà: quali sono state le principali?

«Ricordo che la prima sera un ragazzo esperto si è fatto male: ecco, in quel momento mi sono svegliata dal sogno, ho capito che non era semplicemente una questione di bravura e attenzione, l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. Attraversavamo villaggi, la persone si avvicinavano, poi c’erano i guadi, le curve strette in montagna. E più ti irrigidisci, più la moto diventa difficile da controllare. Quindi ogni tanto molleggiavo e respiravo, per rilassarmi: tipo meditazione dinamica. Ti ammorbidisci e diventi tutt’uno con la moto».

Tre cartoline immaginarie che ti porti dietro di questa esperienza?

«In primis la pausa alla prigione portoghese, una specie di canyon dove ci siamo fermati a pranzo: lì nel mezzo ti senti piccolissima, tutti i problemi svaniscono, perdono consistenza. Poi sicuramente i bambini che ti fanno il tifo quando passi da villaggi sperduti: mi emozionava pensare che aspettassero il passaggio di persone che, nella pratica, vedevano solo per pochi secondi, ma quello era in un certo senso il loro viaggio, pur stando fermi lì, il contatto con l’umanità. La terza è, appunto, la guida che ci ha raccontato come si era nomadi prima, quando ci si dava appuntamento tra due lune piene, orientandosi con la natura. Non come oggi che usiamo solo le mappe degli smartphone e la testa non ragiona più».

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Nel viaggio della tua vita, invece, quali sono state le tappe più importanti?

«L’arrivo di mio fratello, che ha segnato l’inizio della condivisione: quando è nato avevo soltanto due anni, ma con lui sono stata molto mamma, non era solo un compagno di giochi. Fondamentale nel mio percorso è stato anche il tempo passato con mia nonna, che se n’è andata quando avevo undici anni: con lei ho esplorato la parte artistica, ho imparato ad amare, ad avere uno sguardo aperto verso l’altro, ad essere felice della gioia dell’altro. Poi ci sono state le gare di ginnastica artistica, uno spazio del mondo in cui mi affermavo, fuori dalla mia famiglia».

Lo spirito competitivo non è mai mancato.

«Mi piacciono le sfide, sono sportiva nell’anima. Nel mio periodo di confusione, quando non sapevo cosa fare, o meglio, non sapevo come fare a farlo, c’è stata una persona che mi disse che non sarei riuscita a realizzare il mio sogno: invece sono entrata nella scuola, ho trovato un’agenzia, ho iniziato a lavorare. Credo alla fine dovrei ringraziarla, perché mi ha spinto a dare tutta me stessa».

C’è qualcosa che ha sempre avuto con sé, che in un certo senso l’ha guidata nel cammino?

«Gli anelli di mia nonna, che tengo come fossero delle protezioni: mi piace l’idea di avere addosso qualcosa che è stata parte di qualcun altro. Poi mi porto sempre dietro un libr0 di poesie, in cui posso perdermi in qualsiasi momento, godendo anche solo di un piccolo spicchio. E ovviamente il mio taccuino, dove scrivo idee e appunti: flussi di pensiero, che sciolgono i blocchi».

Ingredienti di libertà.