Bolle di sapone, un reggiseno, scarpe dal tacco fino, e poi una tazzina con il fondo del caffè, i gioielli dorati che ornano le mani di una sposa, uno stendino pieno di body da bambino. Su uno si legge, stampato in lettere colorate, “şimdi uyku vakti”: adesso è ora di dormire.

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Charlotte Schmitz
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Sono alcuni degli oggetti scelti dalla fotografa documentarista Charlotte Schmitz per il suo progetto chiamato Çok güzelim, çok güzel/ I am so beautiful, so beautiful.

Nata e cresciuta tra la minoranza danese in Germania, Schmitz ha vissuto per due anni a Istanbul nel quartiere ebraico di Balat, un posto che a vederlo sembra finto. Le case, alte ed eleganti, sono dipinte di colori accesi, e così anche le scale, le sedie fuori dai bar, i cestini per la spazzatura, le fioriere attaccate ai muri. Viene dal greco, la parola Balat, e vuol dire palazzo, dimora, un nome calzante perché è proprio dalla loro dimora, dalla loro casa, che le donne turche osservano il mondo, impossibilitate a prendervi parte a causa di una politica patriarcale che nella maggior parte dei casi ne impedisce la scolarizzazione e l’indirizzamento nel mondo del lavoro, che le vuole silenti, devote al marito e ai figli, a volte condannate a matrimoni combinati e prive di prospettive future, rinchiuse in un guscio che non di rado è sinonimo di violenza. Neanche la casa infatti è sempre rifugio ma il luogo in cui, dati alla mano, avvengono molte violenze fisiche ed emotive, in Turchia e ovunque nel mondo.

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Non è un caso, quindi, che Schmitz abbia deciso di riportare nei suoi scatti i colori sgargianti del fuori, del quartiere in cui ha vissuto e che ricorda con nostalgia, nella sua pagina Instagram. Soprattutto il fucsia che diventa imperante (è fucsia la felpa della bambina vestita da Spiderman, le roselline stampate sulla ceramica, il rossetto della sposa, le lenzuola, il motivo damascato sulla parete), simbolo di femminilità e forza, sensuale e intimo, un nesso forte tra il fuori e il dentro, tra la vita pubblica, spesso possibile solo nelle occasioni speciali come le celebrazioni religiose, e quella privata che continua nell’ombra, imperterrita e vivace.

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Charlotte Schmitz
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Una vita privata che Schmitz illumina con il suo flash svelandone i contorni e rendendo visibile, finalmente, ciò che prima era nascosto. Per scattare si è messa davanti ai soggetti, senza lasciare scampo neanche a chi guarda, come a dire: osserva bene. Ed ecco perché le sue foto rivelano un’intimità molto forte, un rapporto tra le due parti, chi fotografa e chi viene fotografato, che è delicato e confidenziale. Anche gli oggetti sembrano dotati di una propria dirompente vitalità, perché dentro di sé celano un mondo e rivelano molto di chi li ha scelti e di chi li possiede: chissà chi ha tolto quel reggiseno, quante volte saranno stati indossati i tacchi, cos’ha svelato la lettura dei fondi di caffè, se la ragazza con le ciglia finte è stata felice, poi, in quel matrimonio.

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Sono domande che mi faccio mentre scorro le foto, e a un tratto mi torna in mente un fatto avvenuto qualche settimana fa. Mentre tornavo a casa a piedi, di sera, mi sono accorta che i lampioni della strada per arrivare al mio appartamento erano tutti spenti. Avrei dovuto percorrere almeno duecento metri completamente al buio, avevo iniziato a farlo finché non mi ha preso una sensazione di pesantezza allo stomaco, quella paura vischiosa e strisciante che ha ben presente qualsiasi donna si trovi a compiere un’azione banale e rischiosa come percorrere le strade della città in cui vive.

Ho chiamato subito l’amico che avevo appena salutato, è tornato indietro e insieme ci siamo incamminati nel buio. Ho scherzato sul fatto che avrei dovuto comprare uno spray al peperoncino. Lui ha detto che la sua fidanzata, quando le capitava di camminare di notte, teneva le chiavi infilate tra un dito e l’altro, come le lame di Wolverine.

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Il giorno dopo ho contattato l’Enel, la ragazza che mi ha risposto è stata gentile, il problema riguardava un’area intera e avrebbero risolto la situazione in pochi giorni. Sul gruppo Facebook del quartiere qualcuno ha scritto un post per lamentarsi, un signore sulla cinquantina ha commentato: “siete esagerati, basta usare la torcia del telefono”. Una ragazza ha risposto: “sei un uomo, non puoi capire”. Le ho messo like, poi ho comprato su Amazon uno spray al peperoncino da attaccare al portachiavi. L’ho scelto rosa acceso (che almeno sia carino, ho pensato), e mentre guardavo il lavoro di Schmitz era poggiato sul tavolo accanto a me, insieme alle chiavi. Mi sono domandata se avrei scelto quell’oggetto per descrivere la mia quotidianità, il mio rapporto con il fuori, la paura che non dovrei avere ma che ho comunque, che abbiamo sempre comunque tutte.

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Sono due le immagini che più mi hanno colpito, di questo portfolio. Quella di una ragazzina sdraiata a terra, la felpa che indossa è fucsia, ça va sans dire, e guarda fisso un pappagallo nella sua gabbietta. L’altra è quella di una signora, tiene il pappagallo sul dito, lo bacia con gli occhi chiusi, e l’uccellino è chinato in avanti, libero, sembra pronto a spiccare il volo.