Armie Hammer, intervista
Eroe del west, insieme a Johnny Depp l'attore è protagonista di The Lone Ranger. Leggi l'intervista esclusiva
Sullo schermo è stato il nemico di Mark Zuckerberg, il principe azzurro di Biancaneve e l'amico fedele di DiCaprio. Adesso viene aiutato da Johnny Depp a espugnare definitivamente lo star-system grazie alla sua prova in The Lone Ranger. Il nostro Cosmo-inviato Pierpaolo Festa l'ha incontrato. Leggi l'intervista esclusiva.
Sullo schermo veste i panni di una delle più celebri icone pop della cultura made in USA, ma se esploriamo il suo albero genealogico scopriamo che Armie Hammer non solo ha radici sovietiche, ma perfino che suo nonno è stato uno dei nomi più noti all'interno del partito comunista a New York.
«Era uno dei cofondatori», racconta Hammer quando lo incontriamo in Russia alla première di The Lone Ranger. «Eppure i suoi eredi diretti furono i primi a dare una svolta improvvisa alla famiglia, dirigendola verso il capitalismo. Penso che il concetto base del comunismo sia comunque una grande idea.
Almeno sulla carta. Poi quando devi considerare anche l'elemento umano, diventa impossibile da eseguire. Non credo accadrà, a meno che non ci evolviamo come non abbiamo mai fatto...».
Messi da parte falce e martello, parliamo con Hammer di un altro tipo di evoluzione, quella artistica che per lui è stata un'impresa titanica contro tutto e tutti.
Ventiseienne sulla cresta dell'onda nell'olimpo hollywoodiano, l'attore è un uomo che ha cambiato il suo destino a costo di affrontare i suoi stessi genitori che sono stati il primo ostacolo tra lui e il grande amore per il cinema.
«Sono certo che mio padre mi volesse uccidere: è successo quando ho lasciato la scuola e deciso di non laurearmi. I miei mi hanno sempre protetto e sostenuto, ma questo fu un brutto colpo per loro».
Quando hanno capito che questa era la tua strada?
«Per anni ho cercato di fargli capire quanto amore avessi per questa arte. Mio padre si è calmato quando sette anni fa sono stato ingaggiato per Justice League, in cui mi avevano dato il ruolo di Batman. “Che grande che sei ragazzo mio!” - mi disse. Purtroppo quel film fu cancellato in fase di pre-produzione. Lui però è rimasto felice e orgoglioso. Mia mamma, invece, si è convinta poco dopo quando ho interpretato un paio di produzioni indipendenti. E poi va bene così: hanno già un altro figlio che fa l'uomo d'affari. A me piace di più l'arte».
Come hai maturato questo grande amore per il mestiere dell'attore?
«Semplicemente guardando film in continuazione. Nei weekend ne guardavo sei o sette non-stop. E quando ero al liceo ci veniva sempre data la scelta tra scrivere un tema oppure girare un film studentesco. Sceglievo sempre la seconda opzione, chiamavo in raduno i miei amici e giravo cortometraggi. Come attore facevo penare! La verità è che questo mestiere lo devi imparare e prenderlo da subito sul serio. Se non ti metti sotto, ci sarà qualcun altro che avrà il ruolo».
Tredici anni dopo eccoti al fianco di Johnny Depp nel tuo primo ruolo da protagonista assoluto in un blockbuster. Essere cresciuto in Texas ti ha aiutato a impersonare questa icona pistolera?
«In realtà non sono cresciuto addestrando cavalli o sparando nei poligoni durante il tempo libero. Diciamo che ho passato tanti momenti nei ranch, quindi sul set ero pronto a determinati aspetti di questo ruolo. Ed ero impreparato verso tanti altri aspetti. In questi casi ti ritrovi circondato dai migliori professionisti che sanno come addestrarti velocemente: è stata dura ma ne è valsa la pena».
Immagino però che trovarsi sul set con tutti quei mega-giocattoli sia stato anche parecchio entusiasmante...
«Nella maniera più assoluta. Questo film è stata la realizzazione dei sogni, di quelli miei così come di quelli di Johnny Depp. La mattina arrivavamo al lavoro con temperature di cinquanta o sessanta gradi, e a volte c'erano tempeste di sabbia. Non ci fermavamo ed eravamo pronti a tornare sui treni per le scene d'azione».
A proposito di treni: qual è stato il treno più importante della tua vita?
«Quello che mi ha portato lungo le rotaie dell'Ungheria. Mi mancano quei tempi di avventura: da quando faccio questi film passo gran parte del tempo seduto su un aereo. Non è uguale, finisco per fare sempre le stesse cose: leggere, guardare il portatile, controllare e ricontrollare le mail...».
Una vita di comfort totale, l'esatto opposto rispetto alla vita nelle riserve dei nativi d'America nelle quali cui avete girato il film...
«È incredibile, molti di loro vivono in zone così remote degli USA senza nemmeno acqua corrente o elettricità. Ci hanno accolti nei loro territori che sono come imperi autonomi all'interno della nostra nazione: ogni zona ha le proprie leggi, cultura e lingua. Rimanevo incantato da come ogni volta organizzavano dei rituali con cui benedicevano il nostro lavoro. Davano il benvenuto alla troupe, e chiedevano il permesso alla terra e all'aria di farci lavorare al meglio. È una cultura che va indietro di almeno un migliaio di anni. È rimasta intatta. Questo mi ha stupito».
Gli “indiani” dunque non sono cambiati. L'America però sì: la maggior parte dei personaggi del film è corrotta. In cento anni l'America è diventata veramente così onesta?
«È interessante perché The Lone Ranger parla di uomini in grado di schierarsi contro i disonesti. A volte devono indossare una maschera per farlo. Però mostra un posto molto pericoloso che è una metafora della realtà. Un luogo in cui la persona che fa la cosa giusta è la prima a trovarsi in pericolo. Penso che sia un film realistico perché punta il dito contro qualsiasi cultura abbia oppresso popoli indigeni. Questo è un tema universale, non solo americano: è successo ad ogni Paese che ha invaso un altro Paese».
Hai scoperto qualcosa in comune con il tuo personaggio?
«Fisicamente ci somigliamo moltissimo a quanto pare. Comunque entrambi siamo in grado di sentire dolore nel momento in cui assistiamo a un'ingiustizia. Nel caso mio forse il dolore mi bloccherebbe e basta, il ranger solitario invece lo trasforma e reagisce. Lui sa sempre qual è la cosa giusta da fare».
Lone Ranger è un eroe che sa sempre cosa fare. E' stato così per te quando hai conosciuto tua moglie e le hai fatto la proposta?
«Siamo sposati dal 2010 (la moglie è la giornalista americana Elizabeth Chambers, n.d.r.). Ed è stato proprio l'opposto di quello che mi chiedi. Non sapevo cosa dire: ero timido e impacciato!».
C'è stato un momento nella tua carriera in cui una star ti ha fatto lo stesso effetto, paralizzandoti dall'emozione?
«Sicuramente quando ho recitato con Julia Roberts in Biancaneve. Che donna incredibile! Lei è in controllo di tutto e allo stesso tempo cerca l'allegria e riesce a trovarla Mi porto dietro ricordi gioiosi di quella esperienza, inclusi i primi momenti quando ero inizialmente bloccato davanti a lei».
In questo momento in cui la tua carriera sta spiccando il volo sai qual è la cosa giusta da fare oppure ti senti travolto dagli eventi?
«Affatto. Sono sveglio e cerco costantemente di mantenere il controllo. Non devo pizzicarmi, so bene che se perdessi la testa, qualcuno dei miei cari verrebbe da me a stendermi con un pugno il più velocemente possibile. È incredibile quanto tutto questo sia cambiato velocemente. Sento che devo essere ancora più vigile. Adesso molte più persone mi vedranno e sapranno quello che faccio, soprattutto noteranno se non farò un buon lavoro. Ecco perché devo rimanere concentrato: questo è il mio processo creativo».
Qual è dunque il tuo obiettivo finale?
«Senza dubbio arrivare a un progetto personale da dirigere. Ho la mente aperta. E voglio conoscere questo mondo da tutte le sue angolazioni».
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