Il giorno tanto atteso è arrivato. Il 29 marzo Beyoncé ha pubblicato il secondo capitolo della sua personalissima trilogia, Cowboy Carter, che dopo la prima copertina che la vedeva nuda su un cavallo bianco, sul secondo album si trasforma in una Cowgirl texana (nata e cresciuta a Houston), vestita coi colori degli Stati Uniti. Il suo ottavo album arriva dopo la pubblicazione di "Texas Hold’em" e "16 carriages" che anticipavano, da una parte, un cambio di rotta di genere della pop star, con lo sguardo verso il country, e il desiderio di compiere, attraverso la sua musica, un gesto politico.

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Il viaggio di Cowboy Carter parte da “American Requiiem” (in ogni brano raddoppia la “i” per rimarcare Renaissance Act II) e termina con “…Amen”, in quello che potrebbe considerarsi lo stesso tempo di una celebrazione religiosa. Perché è questo che vuole fare: glorificare un genere, ripercorrendone le origini. Una rivalsa per uno dei più grandi nomi del panorama musicale, che nel 2016 durante un’esibizione di “Daddy Lessons” ai Country Music Association Awards non venne apprezzata perché tra un pubblico principalmente di uomini bianchi, secondo la loro opinione, lei non li rappresentava. E proprio nel brano di apertura del disco canta: «Mi dicevano che ero troppo country».

I riferimenti al passato, in questo progetto quasi monumentale, sono tantissimi. In una narrazione lunghissima capace di oscillare tra la musica di ieri e la vita di oggi, Beyoncé riporta, ad esempio, una cover di “Blackbird” dei Beatles. Una scelta “astuta”, scrive il The Guardian, perché la canzone pubblicata nel 1968 la scrisse Paul McCartney in omaggio ai Little Rock Nine, un gruppo di nove studenti neri che vennero discriminati dopo l’iscrizione alla scuola Little Rock nel 1957, allora di soli bianchi. E, insieme a lei, cantano tutte donne nere: Brittney Spencer, Reyna Roberts, Tiera Kennedy e Tanner Adell. Poi si trovano anche Willie Nelson e Dolly Parton per due camei della durata di pochi secondi, che anticipano i brani successivi.

E tra i nomi, all’interno dell’album, spunta anche quello di Linda Martell, cantante che nel 1970 pubblicò Color Me Country, il primo successo commerciale per una donna nera in questo mondo. Tutto è studiato, in ogni punto e dettaglio. Beyoncé, però, sorprende: include, infatti, Martell in un brano che come suoni si allontana dal suo genere naturale, il country, per portarlo alla sperimentazione di nuove strade, molto più vicine al rap. E di Martell riporta un’introduzione piuttosto significativa: «I generi sono un piccolo concetto divertente, non è così? Sì lo sono. In teoria, hanno una semplice definizione, facile da capire, ma in pratica, beh, alcuni potrebbero sentirsi confinati».

E, infatti, non ci troviamo davanti a un tipico album country, Beyoncè lo chiarisce subito. Dentro si trovano anche Miley Cyrus e Post Malone. Anche Rumi Carter, la figlia della cantante, una dei due gemelli avuti con Jay Z, in Protector. A Sir, invece, dedica "My Rose". Tantissime sarebbero le canzoni da citare e da spiegare, per trovare tra le righe di ogni brano tasselli di un viaggio il cui scopo è uno soltanto: riappropriarsi delle proprie origini.

Un album fortemente simbolico, a partire dalla stessa copertina con Beyoncé a cavallo. Quasi un’amazzone che rivendica la sua terra. O ogni genere musicale.