Dalle notti passate in corsia come infermiera al sogno della musica da sempre ben chiaro, Kaze, all’anagrafe Paola Gioia Kaze Formisano, pubblica venerdì 12 aprile il suo primo album “Post buio”, per indicare quel momento in cui la notte diventa luce, quando il silenzio trasforma i pensieri in scrittura. Scrive di sé, delle sue emozioni che spesso non riesce a esprimere a voce, quando la città è ferma e in giro non c’è nessuno, quando resta solo la pace. Nata a Nairobi in Kenya ventisette anni fa, si è trasferita a Terracina quando ne aveva 11 e oggi vive a Milano, città che ritorna in tante sue canzoni: «La amo, ma mi ha fatto sentire molto sola». Solitudine come sentimento protagonista, insieme all’amore che vince sulla rabbia di una ragazza cresciuta tra frasi razziste che ancora oggi ritrova in alcune battute, ma che ha imparato a non subire più. Passando da uptempo coinvolgenti e ballad emotive, Kaze prende spunto da quello che vive e sente. Dopo averla vista in Call My Agent ITA, la serie targata Sky Original, raccoglie in dieci tracce il suo mondo fatto di colori e storie. Per lasciare entrare tutti.

Sul comunicato stampa del tuo disco ti definiscono “nuova promessa del pop italiano”, che effetto fa?

«Vivo sempre un po’ male le aspettative, mi mettono un'ansia non necessaria e preferisco essere sottovalutata così posso fare un effetto sorpresa. Sento la responsabilità. Posso dire che sono molto contenta di questo disco. Mi ero ripromessa di farlo prima di tutto per me, senza compromessi. Sono molto tranquilla, quel che ne verrà fuori mi va bene».

I pezzi quando sono nati?

«In periodi diversi, negli utlimi tre anni. Appartengono a fasi diverse nella mia vita, ma fanno tutti parte di quel “Post buio” che dà il titolo, in cui mi sono sempre trovata molto bene a scrivere. Sono una persona che tende a distrarsi, cerco sempre di coprire tutto col rumore. Quello è l’unico momento in cui mi sento in pace con i miei pensieri».

Per quanti anni hai fatto l’infermiera?

«Più o meno due e mezzo, dal 2019».

Negli anni del Covid...

«Sono stata in casa di riposo, poi in pronto soccorso, poi ho fatto anche i tamponi in farmacia. Ho visto i vari lati della professione e sono stati anni impegnativi. È una costante della mia vita, se una cosa può essere complicata, io riesco a trovarla ancora più complicata. Ma è stato molto formativo, tanto doloroso, ho ancora incubi di quel periodo, ma anche empatico. Mi ha permesso di crescere, imparando a riconoscere lo spettro delle emozioni altrui. Il dolore degli altri è un dono, quando qualcuno ti dà il suo dolore è qualcosa di immenso».

La musica ti aiuta nel dolore?

«Sì e mi rendo conto che tutte le esperienze che ho vissuto, anche molto diverse tra loro, sono state preparatorie per arrivare a fare quello che volevo davvero. Sono una persona che si apre con difficoltà, racconto senza problemi di quello che mi succede, ma tendo sempre a tenere le emozioni per me. Invece nella musica riesco a sviscerarle tutte».

Oltre al dolore si sente anche un po’ di rabbia.

«Sono nata in Kenya e ho vissuto in Burundi fino a 11 anni. Poi mi sono trasferita a Terracina, in provincia di Latina. È stato complesso, ma l’ingenuità mi ha salvato. Tante cose sul momento non mi facevano male perché non riuscivo a cogliere la cattiveria o le cattive intenzioni, non potevo credere che le persone potessero essere così discriminanti per il solo colore della pelle. Non mi apparteneva e ancora oggi non mi rendo conto subito che quella battuta che mi sembra sul momento simpatica in realtà nasconde altro».

È stato difficile?

«Ci sono stati momenti estremamente complessi, anche per la mia famiglia. Per mia mamma che ha subito un razzismo molto più pesante, perché era più grande, perché ha una pelle più scura della mia. In qualche modo il mio essere più chiara è stato un privilegio all’interno di una minoranza e questa cosa per me non ha senso. La rabbia arriva da quegli anni. Ne ho accumulata, mi sono tenuta dentro tanto, ho fatto un percorso per lavorarla e capire che alcune cose le devo lasciare andare. Con la mia psicologa la parte più difficile è stata capire che questa rabbia fa più male a me che agli altri. Può essere un grande propulsore, ma in realtà ti logora. Ho imparato, sto imparando, a lasciarla andare».

Nel disco però c'è più amore che rabbia.

«È un disco pieno d’amore perché è uno dei sentimenti a cui tengo di più. Tutte le forme d’amore mi hanno sempre stravolto, alla fine è una cosa primordiale».

Il primo brano è “Amplesso” che parla anche di sesso e libertà.

«Mi ero messa a cercare il significato di amplesso in italiano perché spesso lo leghiamo soltanto all’atto sessuale ma significa anche abbraccio. Non avevo mai comunicato questa parte di me, sono a mio agio con la sessualità e anzi è stata anche un appiglio, qualcosa che mi ha dato sicurezza perché sono molto libera. In quella traccia c’è quella parte di me che si sente più sensuale, ma volevo sviscerare l’amore in tutte le sue forme. Per una sorella, una madre, per quelle storie in cui devi perdonare, per me. In “Non mi va” parlo di tutto quello che odio di me, ma comunque mi abbraccio»

Per tua mamma canti una “lettera” d’amore molto personale.

«"Sopra sta terrazza (mamma)” l’ho scritta tre anni fa, l’ho cantata ai live, avevo paura del suo giudizio, le è piaciuta tantissimo. Mia madre si è sempre preoccupata tanto per me, se le madri si preoccupano, lei si preoccupa di più. Mi sono messa nei suoi panni, ho sentito la paura che può avere una madre nel mandarti nel mondo. È stata severa con me, ma mi ha permesso di non mettermi in pericolo. A modo mio le dico che ho capito».


“Caramelle” invece a chi è dedicata?

«A mia sorella che è la persona che amo di più in questa terra. Ho fatto fatica a scrivere questa canzone. Ci sono dentro sentimenti contrastanti, io e lei abbiamo vissuto insieme tante cose più grandi di noi in un’età in cui eravamo troppo piccole e siamo sempre state unite, anche senza bisogno di comunicare. Oggi parliamo in maniera aperta di quello che pensiamo, ma non le avevo mai detto nulla di come mi sentivo».

È più piccola?

«Sì, ma è la più seria, a volte è stata lei una sorella maggiore per me».

La solitudine di cui parli da cosa deriva?

«È il mio cruccio più grande. A volte la ricerco, a volte la detesto, altre è la mia migliore amica. Quando mi sono trasferita a Milano l’ho sentita tantissimo. Ho iniziato a frequentare l’ambiente musicale, a fare le prime cose, ero affascinata dal girare di notte, ma mi sono resa conto solo dopo che uscivo per non stare da sola. Ho fatto scelte sbagliate pur di non stare da sola. È stato importante ritrovare una dimensione in cui riconoscermi e fare quello che realmente avevo voglia di fare».

E ora?

«Sulla carta non sono sola, solo che sono una persona molto chiusa, faccio fatica a chiedere aiuto agli altri, ho una barriera attorno, allontano le persone e poi me ne lamento. Ho tantissima paura di aprirmi e essere delusa, ho paura di perdere le persone. È l’aspetto su cui più devo lavorare. Lasciarle entrare. Con questo disco lo faccio».