La zona d’interesse è uscito al cinema in Italia il 22 febbraio (nel frattempo ha conquistato cinque nomination ai Premi Oscar). La scelta di non farlo arrivare nei cinema un mese prima, in concomitanza con la Giornata della Memoria è un modo per dire che non si dovrebbe mai dimenticare l’orrore dell’Olocausto, anche ogni altro singolo giorno dell’anno.

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Quando si parla dello sterminio di Hitler raccontato al cinema si pensa a Schinder’s List o La vita è bella, capolavori assoluti del cinema che hanno scelto un punto di vista ben preciso per mostrare la mostruosità che l’uomo può raggiungere. Mai nessuno, però, prima del regista Jonathan Glazer aveva pensato di raccontarlo ma senza mai mostrarlo. Sembra un paradosso, eppure è così. In questa storia la prospettiva è ribaltata, non si vedono gli orrori con gli occhi degli ebrei e delle altre minoranze sterminate, ma con quelli dei loro aguzzini.

Anche qui si potrebbe pensare che sia facile etichettarli come mostri e vederli in azione mentre compiono le peggiori barbarie immaginabili. E invece no: i tedeschi, nello specifico il nazista a capo del campo di concentramento di Auschwitz viene raccontato nella sua beata e felice vita domestica. Sì, perché al di là del filo spinato c’è il villaggio dove vivono le guardie. Si sentono i cani guaire, le catene stridere, i treni frenare sui binari e il fumo dei forni crematori ma nessuna immagine documenta quello che succede dentro il campo.

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Loro, con le casette con il praticello verde, la piscina e le riunioni gioiose dei figli, sono totalmente immuni ai segni di quella violenza, come se fosse un mondo a parte, dove in automatico si perde l’umanità e si diventa carnefici. Definirlo potente e necessario come film è un eufemismo perché quando si mettono in moto gli altri sensi e si esclude la vista, tutto viene amplificato e diventa quasi impossibile uscire dalla sala con la stessa consapevolezza di quando si è entrati.