Paura, “stato emotivo di repulsione e di apprensione in prossimità di un vero o presunto pericolo", così cita il dizionario. Una rappresentazione reale di quello che ogni donna può provare camminando per le strade della sua città o rimanendo dentro le mura di casa propria. Le donne, fin dalla più tenera età, vengono cresciute inconsapevolmente (per loro, ma anche da parte dei genitori) non a vivere, ma a sopravvivere con semplici e vecchi trucchi. “Torno tardi la sera, mi cambio le scarpe. Cammino da sola, avviso quanto entro in casa. Uno mi infastidisce per strada, faccio finta di parlare al telefono”. Tutto questo è normale? A Londra il caso Sarah Everard, qui in Italia, il caso Marta Novello (per citare l’ultimo di una lunga serie)… Le donne di tutto il mondo si interrogano sui propri timori ed esperienze vissute in prima persona. Non si sentono sicure e, in uno stato come l’Inghilterra, molto attento alla sicurezza, le nuove restrizioni a cui sta lavorando il governo, fanno sorridere le stesse donne che vi abitano.

“Il governo inglese ha fatto molte proposte per fare sentire le donne più sicure - ci racconta Carolina Are, 28 anni, docente di criminologia e giornalismo alla City University of London - Più telecamere a circuito chiuso, investimenti per migliorare l’illuminazione per le strade e un aumento dei poliziotti in borghese nei locali di Londra quando apriranno. Li definirei provvedimenti cosmetici, giusto per salvarsi la faccia”. Are non è l’unica ragazza di Londra che si è stupita e ha sorriso davanti a questi disegni perché, racconta “non saranno delle telecamere in più a farmi sentire al sicuro”. Inoltre Londra è una delle città più sorvegliata al mondo, più precisamente, la terza. Le telecamere, in fondo, servono per prendere i criminali, non per garantire sicurezza a una donna. “Nel caso di Sarah Everard la polizia ha capito che percorso ha fatto Sarah e ha identificato il colpevole. Ma non l’hanno salvata!”. Le donne hanno paura e si sentono insicure non (solo) perché la strada verso casa è buia, ma perché i dati legati alle violenze sulle donne sono allarmanti: in Inghilterra solo il 5,7% dei casi di abuso viene punito. Aggiungiamoci che solo il 15% di chi subisce abusi lo riporta alla polizia e il 90% di chi viene stuprato conosce bene il proprio aguzzino. In questi casi le telecamere a circuito chiuso o una strada illuminata che effetto può fare sulla sicurezza di una donna?

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Oltre alle proposta di legge del governo inglese, dal comune di Bristol, nelle scorse settimane ne è emersa un’ulteriore: chiudere gli strip club della città. Secondo i consiglieri comunali questa decisione porterebbe a un calo del numero di violenze sulle donne, ma, la domanda che ci poniamo è: qual è il nesso tra i locali, in questo caso gli strip club, con la violenza sulle donne? Carolina Are che, oltre a essere una docente universitaria è anche una pole dancer, spiega la (triste) ironia che si cela dietro questa decisione. “Sul The Guardian, gli scorsi giorni, è stata intervistata una consigliera comunale del partito laburista che menziona delle prove che colleghino la violenza sulle donne agli strip club. Prove che non sono state mai presentate. Vediamo che i moralismi del governo prendono sopravvento perché si parla di strip club. Se questi verranno chiusi, queste donne che, il partito comunale vuole mettere al sicuro, non saranno più al sicuro perché perderanno il lavoro che loro hanno scelto e non avranno più una sicurezza economica. Queste ragazze continueranno a lavorare nell’industria del sesso, ma al posto di lavorare in un ambiente protetto, saranno costrette a lavorare in modo estremo e pericoloso”. Negli strip club c’è la sicurezza. Da sole, al contrario, possono essere facilmente oggetto di violenza.

Come in ogni discorso legato alle violenze di genere, quello che sembra mancare è sempre lo stesso principio: l’educazione. Tutti i casi di violenza dimostrano che il dovere di proteggersi debba essere in mano alle donne; qui ci vuole un cambio di prospettiva: non pensare più a “come” proteggere le donne, come farle sentire al sicuro, ma “perché”. “La maggior parte delle violenze sulle donne sono commesse da uomini, quindi dovremmo ragionare sul perché gli stessi la commettano, perché non si parli mai di consenso reciproco. Dovremmo parlare più del consenso, del sesso come piacere in cui sono coinvolte entrambe le persone della coppia. C’è mancanza di discussione a livello scolastico, ma bisogna essere più aperti anche in famiglia e iniziare a parlare di questioni che, per ora, sono ancora tabù”, ci spiega la dottoressa Are. Quale pensa che possa essere la soluzione? “Io penso a un investimento a lungo termine sull’educazione sia a livello scolastico riguardo ai rapporti tra uomo e donna, sia nella polizia. In Inghilterra c’è stato un calo degli incriminati, le accuse di stupro crescono, ma poche delle persone accusate sono state condannate. Nel sistema giuridico non c’è volontà di prendere sul serio le accuse di violenza”.

Sembra assurdo come da un discorso così complesso e importante per la sicurezza della donna, un comune decida di prendersela con l’industria del sesso: “Ci sono persone, uomini o donne che siano, che lavorano nell’industria del sesso consapevolmente. Idee moraliste e paternaliste tolgono potere alle donne quando, invece, si pensa di salvarle”. I casi di femminicidio, stupri, violenze domestiche che accadono ogni giorno in ogni parte del mondo ci dimostrano l’importanza di agire immediatamente in maniera più consapevole, più forte. I club sicuramente non sono luoghi in cui perpetua la violenza, la strada sì, nel cervello umano, a quanto pare, sì. Ecco, partiamo da qui, da una semplice domanda. Come potremo educare gli uomini del domani a un rispetto più consapevole della figura femminile? Partiamo da loro, dalle nuove generazioni.