Il victim blaming ti rende vittima due volte. La seconda puoi gestirla ricordando la regola numero uno: quando subisci una violenza non è colpa tua. Non te la sei cercata, non c'entra com'eri vestita, da quel commento urlato per strada da un tizio che non sai nemmeno chi sia, all'ex che ti stalka, al capo che ti mobba. La violenza, in particolare quella di genere, è violenza. Punto. I tipi di violenza che puoi ritrovarti a subire, da quella fisica a quella psicologica (c'è anche la violenza economica) sono molti e statisticamente nell'arco della tua vita potresti essere quella donna su tre che ne diventa vittima.

Il 31,5% delle 16-70enni subisce nel corso della propria vita violenza fisica o sessuale: il 5,4% subisce una delle forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro. (Dati ISTAT)

Si avvicina il 25 novembre, la Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne, e non ci stanchiamo mai di ripetere quanto sia importante denunciare. Ma è anche uno dei passi più difficili, ostacolato soprattutto da fattori psicologici: tantissime vittime decidono di continuare a subire, credendo di non avere altra scelta. Regola numero due: hai sempre una via d'uscita.

Eppure le donne che scelgono di denunciare e difendersi sono poche: durante il lockdown della primavera scorsa le segnalazioni di abusi alle associazioni che difendono le donne sono calate drasticamente.

Ne abbiamo parlato con l'esperta, la dottoressa Rossella Valdrè di Guidapsicologi.it, alla quale abbiamo chiesto di spiegarci meglio i meccanismi psicologici che sono alla base del victim blaming ovvero dell'azione di colpevozzare la vittima e farla sentire causa della violenza subita. Le abbiamo chiesto perché le donne non si difendono, non quanto dovrebbero? "È complesso, ma soprattutto per il meccanismo di identificazione con l’aggressore, entrare cioè nei panni dell’aggressore e pensarla come lui", spiega l'esperta.

Molte vittime non si rendono conto di esserlo: secondo i dati rilevati dall'ISTAT sulle donne italiane, solo il 35,4% di chi subisce violenza da parte del proprio partner ritiene di essere stata vittima di un reato, la maggior parte pensa che si è trattato di un episodio infelice o una dinamica della relazione. Anche per questo tante donne scelgono di tacere.

Abbiamo chiesto alla psicologa di aiutarci a sbloccare questo meccanismo, analizzando i pensieri più comuni che trattengono così tante donne dall'agire, proprio per paura del victim blaming, ovvero di essere giudicate, accusate, non credute.

"Mi vergogno, nessuno deve venire a saperlo"

In molti casi la vittima non se la sente di rivelare a nessuno ciò che è accaduto per non dover fare i conti, anche in futuro, con questa "macchia" nella reputazione (che macchia non è) o con le conseguenze di aver reso pubblica una faccenda così personale.

Denunciare non è facile, diciamo la verità. Perché può accadere il fenomeno della “vittimizzazione secondaria”, in cui cioè la vittima diventa nuovamente vittima dell’istituzione (Polizia, scuola, etc…) che non le crede. Consiglio assolutamente di denunciare perché, forse molte donne non lo sanno, la legislazione è molto cambiata: oggi è molto più severa, dunque possiamo avere più fiducia che in passato delle istituzioni.

"Se lo scoprono i miei sono spacciata"

L'idea che tuo padre o tua madre sappiano quello che ti è successo ti fa sentire ancora peggio dell'idea di subire in silenzio? È normale: il giudizio dei tuoi genitori è importante di default, anche quando ti ribelli o fingi che non te ne importi, il loro sguardo su di te e sulle tue scelte è sempre presente. La psicologa ci spiega come gestire la vittimizzazione da parte della famiglia.

Il rifiuto della famiglia, in termini psicoanalitici la negazione o il diniego, è molto penoso, perché la vittima penserà: "se non mi hanno creduta loro, non lo farà nessuno". Bisogna invece avere la forza di andare oltre, pensare che la famiglia non rappresenta il mondo intero, e che per complessi meccanismi psicologici proprio i più vicini possono essere i più negatori, soprattutto all’inizio. Avere la forza di mettere da parte il giudizio della famiglia e rivolgersi ad altri, denunciare. Può darsi che nel tempo, vedendo che la vittima ha avuto questa forza, anche la famiglia cambierà idea. Non cadiamo nell’errore di sentire di andare bene solo se andiamo bene per i nostri genitori!

"Anche se denuncio non mi crederenno"

La pressione del giudizio sociale è fortissima: l'idea di esporti, mostrando a tutti la tua ferita, diventa insopportabile all'idea che questa ferita venga minimizzata o addirittura negata dalle autorità quando vai a denunciare.

Questo passaggio è molto difficile da sopportare, perché qui la vittima è già arrivata a denunciare, ma non è stata creduta o si è minimizzato (il sopracitato fenomeno della “vittimizzazione secondaria”). Primo consiglio: mi sono espressa bene? Ho raccontato davvero tutto, nei dettagli? A volte la vittima stessa tende a dare un racconto confuso o poco verosimile, a causa del senso di colpa inconscio. Se così non è, tornare a denunciare una seconda volta o altrove. Non sarà facile elaborare il senso d’ingiustizia e può derivarne sfiducia nelle istituzioni e negli altri in generale. Io consiglio di non rinunciare e ripetere la denuncia, perché la rinuncia esterna può interiorizzarsi in rinuncia interna, che equivale a sentirsi impotenti. Non sentiamoci impotenti, anche se la denuncia non va a buon fine investiamo su altre cose buone della nostra vita, che aiutino a guardare avanti. Guardare avanti è essenziale; nel tempo, il fatto va elaborato e piano piano rimosso.

"Se mi credono penseranno che è colpa mia, che me la sono cercata"

Rileggi la prima regola: non è colpa tua. Non te la sei cercata né per come eri vestita, per come ti comporti. E se ti sei messa in una situazione "pericolosa” questo non autorizza nessuno a usare violenza contro di te. Pensare di essertela cercata è una delle tipiche reazioni che impedisce a milioni di donne di esporsi.

Purtroppo questo è ancora culturalmente vero, soprattutto in certi contesti sociali. Avevi la minigonna? Avevi bevuto? Colpa tua. Qui è importante che la vittima “non creda”, cioè non faccia suo, non interiorizzi questo giudizio, perché questo è il grave rischio: bisogna sempre pensare, qui, che non ce la siamo cercata, anche se magari siamo state un pò superficiali (e riflettere su questo), ma che viviamo in un contesto ancora pieno di pregiudizi e stereotipi. Importante, dunque, non identificarsi con questo giudizio, non finire col crederci, perché ciò darebbe molta insicurezza su se stessi. Questa è la reazione più comune. Perché succede? In parte per pregiudizi e stereotipi sulle donne e su tutte le categorie che possono essere oggetto di pregiudizio, perché sono le più indifese e le più facili da stigmatizzare.

La psicologa sottolinea un aspetto importante: spesso a puntare il dito contro la vittima sono le donne, le stesse da cui ti aspetteresti empatia e comprensione.

Riguardo alle donne, il “te la sei cercata” è tipico di una cultura maschilista, che assolve sempre l’uomo, qualunque cosa faccia, e una cultura che cova una sorta di odio inconscio e paura verso la donna. La si tratta male, nelle culture maschiliste, perché la donna può essere inconsciamente temuta dall’uomo, la donna può essere sentita come molto potente: la prima donna, da cui dipendiamo, è stata la madre. Le donne stesse possono contribuire ad alimentare questi pregiudizi, quando non sono abbastanza solidali tra loro (a differenza dei maschi), quando non proteggono abbastanza la loro dignità, il loro lavoro, e via dicendo. Non bastano le leggi, parte del rispetto verso le donne spetta anche alle donne stesse. Il “te la sei cercata” si vince, dunque, su due fronti: quello legale-culturale e quello di crescita psicologica personale.

Ti è piaciuto l'articolo? Iscriviti alla nostra newsletter per ricevere gli articoli di Cosmopolitan direttamente nella tua mail.


ISCRIVITI QUI