A volte nella vita le cose succedono e basta. Una dopo l'altra, così tanto velocemente che non c'è modo di fermarsi, di mettere ordine, di dare un filo logico. È capitato anche a Paolo Camilli, attore 37enne originario delle Marche, giudice della terza edizione di Drag Race Italia, che in una manciata di mesi ha infilato un successo dopo l'altro. Prima un ruolo in The White Lotus 2 che gli è valso una trasferta a Los Angeles per ritirare il Sag Award (miglior cast in una serie drammatica), poi il debutto su Netlfix con una commedia olandese, The Dadchelor (arriverà nel 2024), e infine l'esperienza della vita sul set di Leopardi&Co., accanto a dei mostri sacri come Whoopi Goldberg e Jeremy Irvine: «Ho fatto il provino senza sapere che il film sarebbe stato girato nelle Marche», racconta Camilli. «È stato meraviglioso, una situazione che mai avrei creduto di vivere».

paolo camilli cover extrapinterest
Cosmopolitan
Foto Cosimo Buccolieri, Stylist: Ylenia Puglia @yleniapuglia, Mua: Arianna Lorenzato @arilorenzato.

Partiamo dall'oggi e dal programma di Paramount+ Drag Race Italia (in onda in streaming ogni venerdì). Com'è andata?

«Ho visto grande affetto attorno a questo format. Per me è successo tutto così inaspettatamente, quest'estate, che nemmeno ho avuto il tempo di andare in ansia. Quando abbiamo cominciato con le registrazioni mi sono subito lasciato andare, ho trovato un ambiente accogliente. Mi sono sentito a casa e non è scontato quando in un progetto ci sono tante professionalità diverse».

Il rapporto con gli altri giudici?

«Sono delle belle personalità. Avevo conosciuto Paola (Iezzi, ndr) per caso, qualche settimana prima, a un evento. Mi ha trasmesso subito tranquillità: con lei non ci si sente giudicati ma accolti. Chiara invece (Francini, ndr) non l'avevo mai incontrata di persona: ci siamo annusati, abbiamo legato anche perché eravamo vicini di banco, e alla fine si è creata quella complicità per cui ci capivamo con uno sguardo. E poi c'è Mariano (Galli, alias Priscilla, alla conduzione, ndr): accogliente, generoso, un perfetto padrone di casa».

Tra il lavorare da solo sui social e la coralità di Drag Race, cosa preferisci?

«Quando hai il controllo di tutto ti senti più al sicuro, mentre nei progetti corali ti devi affidare agli altri, ma nel tuo recinto cresci solo tu e invece ricordarsi che ci sono altre dinamiche aiuta a mantenere un equilibrio, impone rigore, detta il ritmo».

In questo senso che ricordo hai di The White Lotus?

«All’inizio l’ho vissuta come un'esperienza e basta: un mese e mezzo di riprese in Sicilia, una bolla meravigliosa in cui dormivamo e lavoravamo tutti nello stesso posto, condividendo cene e racconti di vita, in un'atmosfera familiare. Poi quando la serie è andata in onda ho notato che stava accadendo qualcosa di strano: ricevevo messaggi dall'America e poi è arrivato il Sag e da lì c’è stato un clic, uno switch: ho capito che le cose possono accadere e che forse ero solo io che mi limitavo nel desiderarle, come se ci fosse un'autocensura nel pensare in grande. Forse un po' di pudore, ma mi vergognavo dei miei sogni».

Arrivi da una realtà di provincia. C'entra qualcosa?

«In passato associavo la mia terra al dolore, perché da ragazzino omosessuale di provincia non ho avuto un'adolescenza facile. Ho dovuto tagliare le radici: ho vissuto 11 anni a Roma e adesso a Milano. Allontanarmi mi ha permesso di ricentrarmi, di riprendere la mia identità e di riscoprire la mia regione. Sono dovuto crescere per apprezzarla con occhi più adulti».

Quale forma di shaming, se ce n'è una o più, ti ha ferito maggiormente?

«Ne ho attraversate alcune: il body shaming perché ero paffutello, il bullismo che a quei tempi non aveva questo nome e lo si viveva come un passaggio della crescita, come una cosa naturale. C'era uno stato di allerta che dovevo mantenere sempre alto. E quando ho preso consapevolezza di essere omosessuale provavo disagio: eravamo nell'età della sperimentazione ma io cercavo di nascondermi. È stato faticoso e aggiungo che l’aver subito shaming non vuol dire che involontariamente non l’abbia fatto anch'io ad altri, come forma di difesa. Non avevamo gli strumenti, non sapevamo con chi confrontarci, non c'era empatia».

Cosa pensavi che sarebbe stata la tua vita?

«Ho un ricordo di me ragazzino di terza media che mi arrendo all'idea di non poter avere una fidanzatina, di non meritarmela. Adesso pensarci mi fa tenerezza ma il mio, come quello di molti, è stato un percorso doloroso perché mancavano dei punti di riferimento e dovevi gestire tutto da solo, anche i dubbi».

In questo oggi ci aiutano anche i social.

«Il bello dei social è che mettono in Rete tante esperienze diverse e qualunque sia la tua non ti senti mai a disagio perché non sarai mai il solo ad averla vissuta. Questo porta ad affrontare alcune tematiche in maniera molto più leggera. Per me, nello specifico, i video rappresentano una modalità di espressione. Ho trovato il modo di comunicare attraverso i social con uno stile di comicità che mi assomiglia e mi diverte. Creando personaggi invento dei mondi sempre nuovi. A volte nascono per caso, come Carrie di Sex and The City, che è arrivata per il solo fatto di avere una parrucca in testa ed aver pensato : “Oddio ma sono Sara Jessica Parker"».

E poi c'è il video della palpata sotto i dieci secondi, che è diventato virale.

«Quel video è nato come reazione a una notizia che circolava in quei giorni (la sentenza per cui molestia non è reato se dura meno di 10 secondi, ndr) ma ha scatenato una call to action incredibile. Ne ha parlato anche il New York Times. Mi piace affrontate temi che mi toccano: quelli della comunità LGBTQIA+ ma anche problemi sociali sui quali voglio espormi facendo satira».

Con l'ironia si arriva dappertutto…

«Sì, perché una modalità giudicante ha l'effetto di far alzare le barriere ancora di più in chi si sente chiamato in causa. La satira invece, più che l'ironia, estremizza il vissuto, ha il potere di far riflettere, assottigliando e abbattendo quei muri che ci dividono».

Senti di essere arrivato?

«No, anzi. Seguo un percorso psicoterapeutico grazie al quale mi sono accorto di essere sempre così esigente da non riuscire a godere dei momenti di soddisfazione. Pretendo troppo da me stesso, ma ora mi sento in un flusso, all’inizio di un nuovo ciclo. La vita è una stanza dei giochi, il bello è rompere gli stereotipi. E giocare».