Condivisione e dialogo. Dopo il grande successo della prima edizione, torna «Solve for Tomorrow - LA VOCE della tua generazione», il podcast firmato Samsung che dà voce alla GenZ: un progetto di formazione e inclusione sociale e digitale che vede coinvolti i giovani dai 15 ai 18 anni nella realizzazione di tre puntate in cui, attraverso il racconto di storie ed esperienze, si fanno portatori di un messaggio universale che possa aiutare i coetanei in difficoltà. D’altronde, mai come di questi tempi, sembra essercene bisogno: l’Istituto Superiore di Sanità, dopo aver raccolto una serie di testimonianze post-Covid, parla di «emergenza della salute mentale», mentre una recente ricerca di Unicef e Fondazione Gemelli ha evidenziato che ben il 39% degli adolescenti soffre di ansia o depressione. «Ce lo hanno confermato i professori e gli psicologi con cui abbiamo parlato», ci rivela Anastasia Buda, Corporate Citizenship & Internal Communication Manager di Samsung Electronics Italia. «I punti di ascolto non sono mai stati così pieni».

Partiamo dalla genesi del progetto: com’è nata LA VOCE?

«Ricordo di aver letto una dichiarazione dell’ex presidente americano Kennedy: un paese che non investe nella salute mentale delle proprie persone è un paese che non è destinato al progresso. Ecco, mi sono chiesta se stavamo sottostimando l’impatto degli ultimi fatti. Io inoltre l’ho vissuto in prima persona, perché ho un figlio che ha fatto la terza media in lockdown ed è stato sballottato in prima superiore senza avere gli strumenti necessari: ho parlato con gli insegnanti e ho capito che non era un caso isolato. La colpa non credo sia da attribuire solo al Covid: è una generazione che viene facilmente etichettata ma che ha bisogno di una certa vicinanza»

Qui entra in gioco Samsung.

«Noi abbiamo spesso lavorato in termini di responsabilità sociale, cyberbullismo, galateo digitale, uso responsabile della tecnologia. E il grande obiettivo di questo podcast è dare voce ai nostri giovani e non farli sentire isolati. Creare un luogo dove poter parlare liberamente, senza filtri, esprimersi attraverso la scrittura, che è un mezzo d’espressione proprio come la danza o la musica: d’altronde è una fase delicata della vita, dove non sempre si hanno gli strumenti o l’autostima sufficiente per far venire fuori la propria voce».

In che termini vengono tirati in ballo anche i genitori?

«L’educazione digitale, di cui tanto si parla, dovrebbe essere fatta soprattutto ai genitori. Che non conoscono una serie di social network, non sanno impostare il profilo privato, non sanno cosa abilita il parental control. D’altronde l’adolescenza è un grande trauma per chi la vive in prima persona, ma anche per i genitori che si rendono conto per la prima volta di essere impotenti rispetto alla sofferenza del proprio figlio. Il dialogo è l’unica ricetta, ma non sempre è facile: bisogna essere ascoltatori attenti e saper cogliere i disagi dato che la conversazione si riduce spesso a “com è andata a scuola?” “tutto bene”. Per questo siamo molto felici che tra le oltre 10mila persone che hanno ascoltato la prima edizione de LA VOCE (il podcast brandizzato rivolto alla GenZ più ascoltato su Spotify) ci sono tantissimi genitori e neo genitori, nella fascia 35-45 anni».

instagramView full post on Instagram



Le candidature sono partite e andranno avanti il primo di ottobre. Come funziona la selezione e poi il percorso di formazione che porta alla realizzazione del podcast?

«L’anno scorso ci sono state oltre 2mila candidature, quest’anno abbiamo già superato 1500 classi in tutta Italia, sono numeri importanti. Da lì selezioneremo tre gruppi, ognuno con minimo 3 e massimo 5 persone, quindi lavoreremo con una cerchia finale di una quindicina di ragazzi. Dopo l’esperienza positiva dell’anno scorso, quest’anno sceglieremo anche dei musicisti che possano creare pure le musiche. Ci lezioni virtuali con obbligo di frequenza, fuori dall’orario scolastico, e vengono riconosciuti crediti formativi: alla fine c’è una tre giorni in presenza, a Milano, il bootcamp, che per molti l’anno scorso è stato un momento indimenticabile, si sono costruite amicizie fortissime».

Il tutto, ovviamente, guidato da esperti.

«Le lezioni legate allo storytelling, alla scrittura creativa, all’organizzazione del lavoro sono affidate a noi di Samsung, che ingaggiamo i nostri dipendenti affinché insegnino le loro competenze. Per esempio, nella lezione sui social media, come scegliere un influencer per una campagna promozionale a noi può sembrare una cosa banale, ma non lo è. Poi ci sono i tre coach, che già erano con noi nella prima edizione: è indispensabile appoggiarsi a professionisti, vedi Loretta Redaelli, docente di Psicologica, coach e counselor psicosocioanalitico, che ha elaborato un white paper con una serie di riflessioni emerse durante la precedente edizione e suggerimenti utili che possono aiutare gli adulti a gestire situazioni critiche».

Da qui nasce un progetto parallelo di Samsung, rivolto a docenti e genitori. In cosa consiste?

«È un programma di sensibilizzazione a cura proprio di Loretta Redaelli, che lo scorso anno non ha soltanto supportato i ragazzi, bensì ha fatto pure sessioni di coaching one to one, era una sorta di sportello di ascolto, li ha seguiti da vicino. L’intento non è quindi dare regole, bensì suggerimenti utili agli adulti per seguire figli e studenti costruendo un dialogo migliore. D’altronde in questi incontri con gli adolescenti sono emerse difficoltà proprio di dialogo, il senso di stagnamento. Una delle frasi più gettonate è “non voglio fare la fine dei miei genitori”, che ti dà l’idea che il contesto in cui vivono sia di insoddisfazione, di alienazione, al di là delle questioni economiche. E la scuola, purtroppo, non sempre è in grado di orientarli».

Secondo te dove nasce tutta questa sofferenza?

«La risposta ovviamente non ce l’ho, credo che tanto stia nei genitori che spesso si limitano al problem solving: lo iscrivo ad un corso di inglese così impara la lingua, per esempio. Ma non basta. C’è un eccessiva esposizione al dover fare, manca il tempo vuoto, quello della noia, del gioco fisico all’aria aperta. In più ci aggiungi che i role model oggi, diversamente a un po’ di anni fa, vengono visti come arrivabili, perché magari hanno fatto soldi con i social network: a quel punto scatta il meccanismo nella testa che se lui ce l’ha fatta e io no, sono di serie B. E quello che un tempo restava un giudizio ristretto, magari nella classe, adesso attraverso internet si sparge. E l’unico modo che ho per arginare il giudizio, è essere perfetto. Questa dinamica ovviamente è tossica».

In conclusione, considerato che i device sono in mano a praticamente tutti i giovani, sentite un po’ di responsabilità?

«Certo, per questo ci sono aree dell’azienda che si occupano proprio di responsabilità sociale e non di business. Demonizzare gli smartphone, però, credo non serva nulla: bisogna piuttosto educare all’uso della tecnologia. Non abbiamo l’ambizione di fornire ricette o soluzioni su quando sia il momento giusto di dare uno smartphone ad un ragazzo e quale sia il tempo massimo di utilizzo giornaliero: attraverso iniziative come LA VOCE, che rientra all’interno di "Together for Tomorrow! Enabling People", Samsung si impegna ad aiutare i giovani a diventare cittadini digitali consapevoli, responsabili e pionieri di un cambiamento sociale positivo».