Ti è mai capitato di rivedere un film o un cartone animato o della tua infanzia e pensare: "Oh oh, ma questa battuta non fa ridere". O di accorgerti di qualche dettaglio che, anni dopo, ti fa alzare un sopracciglio? Succede perché intanto la società è cambiata, o hai studiato la storia e hai gli strumenti per contestualizzarli nella loro epoca, confrontandola con quella in cui viviamo adesso.

La linea sottile tra politicamente corretto e completamente sbagliato

Prendiamo Quattro bassotti per un danese, girato nel 1966. Mark e Fran Garrison, pur essendo sposati, dormono in due letti singoli separati, in una cameretta che sembra quella di due fratelli ormai adulti. Negli anni Sessanta le coppie sposate dormivano nello stesso letto, ma la loro rappresentazione sullo schermo doveva tenere conto della morale dell'epoca. Perciò meglio farli coricare, castamente, ognuno nel proprio letto (stendiamo un velo pietoso sul pigiamone antisesso di Fran). Se mai verrà fatto un remake contemporaneo, nessuno si aspetterebbe che quei due dormano ancora separati, casomai in camere separate per dare un'idea di contemporaneità. Fin qui siamo nel politically correct e già si vede quante domande bisogna farsi prima di decidere come mettere a nanna un personaggio, figuriamoci come vestirlo, cosa fargli dire, che lavoro fargli fare. Alcune domande, che forse gli autori non si sono fatti, si sono tradotte in scelte sbagliate. Forse all'epoca non lo sembravano, ma lo erano già, solo che la sensibilità dell'epoca non ha permesso a milioni di persone, partendo dagli autori stessi fino al pubblico che li ha amati, di rendersi conto quanto quei film e cartoni contribuissero a rafforzare alcuni stereotipi e, di conseguenza, alimentare molte forme di discriminazione.

Lilly e il vagabondo, del 1955, i gatti siamesi che suonano i jazz nel superattico parigino cantano, con la classica pronuncia stereotipata asiatica dove la "R" diventa una "L", nella versione doppiata in italiano. Peter Pan, del 1953, ritrae come selvaggi i bambini della tribù nativa dell'Isola che non c'è. Nel Libro della giungla, del 1967, gli oranghi sembrano una caricatura degli afroamericani e in Dumbo, del 1941, uno dei corvi con un gioco di parole (tra corvo e Crow) si chiama come Jim Crow, dal nome delle leggi che, dopo l'abolizione della schiavitù in America, hanno legalizzato la segregazione razziale, cioè la separazione di molti servizi pubblici (scuole, mezzi di trasporto, bagni, ristoranti) riservati esclusivamente ai bianchi o ai neri. Più andiamo indietro e più troviamo esempi di questo tipo.

Quanti cliché in versione cartoon

L'elenco di controversie che riguardano la Disney rispetto alla rappresentazione di stereotipi etnici e razziali è molto lungo. La Disney ne è perfettamente consapevole, al punto che sulla sua piattaforma Disney+ molti film d'animazione storici, sono anticipati da una schermata che ti avverte:

«I cartoni che stai per vedere sono prodotti del loro tempo. Possono rappresentare alcuni dei pregiudizi etnici e razziali che erano all’ordine del giorno nella società americana. Queste rappresentazioni erano sbagliate all'epoca e lo sono anche oggi. Anche se questi cartoni non rappresentano la società odierna, vengono presentati come erano stati originariamente creati, perché fare diversamente sarebbe lo stesso che pretendere che questi pregiudizi non siano mai esistiti».

Molti esperti di antropologia culturale e sociologia sostengono che un semplice avvertimento non sia abbastanza. Shilpa Davé, docente di Studi sui Media e Cultura Americana all'Università della Virginia, ha spiegato in un'intervista sul Washington Post, che il disclaimer della Disney "è un modo prudente di prendere le distanze da decisioni prese dall'azienda decenni fa, per stabilire dov'era allora e dove si posiziona adesso", ma che non è abbastanza. Perlomeno il remake filmico delle stesse storie — e negli ultimi anni ne sono usciti parecchi — avrebbe potuto rappresentare in modo più consapevole le stesse tematiche, correggendo davvero quelle storture. Cosa che non sempre è stata fatta.

Nei film più recenti la Disney ovviamente ha cercato di modernizzare la rappresentazione delle minoranze, delle donne e delle persone di colore, non sempre riuscendoci. Aladdin, del 1992, ha ricevuto pesanti accuse da parte del comitato anti discriminazione arabo-americano, per aver definito gli arabi "barbari che ti tagliano un orecchio" nel brano di apertura, Notti d'Oriente. Quel passaggio, anche nel film uscito pochi anni fa, è stato rimpiazzato con una strofa che fondamentalmente parla del tempo e del paesaggio (C'è un deserto immenso, un calore intenso).

Anche nel Re Leone, del 1994, uno dei film Disney che ha incassato di più (più di 300 milioni di dollari) e ha vinto due Oscar, è macchiato di riferimenti razzisti: secondo alcuni le iene rappresentano una celebrazione delle street gang che si trovano nei quartieri più malfamati di pressoché qualsiasi metropoli. Questo dettaglio è stato corretto dal remaxe di pochi anni fa, togliendo le battute incriminate.

Nel Dumbo di Tim Burton è stata tagliata la scena dell'elefantino che si ubriaca bevendo dal secchio (incluso l'incubo che fa Dumbo da sbronzo, che nel cartone degli anni Quaranta è stato disegnato da Salvador Dalì). Il casting del nuovo film di Aladdin, del 2019, ha sollevato molte polemiche perché non sono stati scelti attori arabi, considerato che la città di Agrabah in teoria dovrebbe trovarsi a Baghdad, la capitale dell'Iraq. "Possibile che la Disney non si capace di trovare un'attore e un'attrice arabi, capaci di cantare e ballare?" ha tuonato la stampa internazionale.

La Disney è stata criticata anche per aver scelto Johnny Depp per impersonare un nativo americano in The Lone Ranger, del 2013, e Emma Stone per fare un personaggio di origini asiatiche nel film Sotto il cielo delle Hawaii del 2015.

Il problema con le principesse

In tante narrazioni riprese dalla Disney la storia era già scritta: molti grandi classici sono adattamenti cartoon di storie della tradizione, best seller per ragazzi, favole per bambini, leggende. Storie alle quali la Disney si è ispirata, prendendosi grandi licenze di rappresentazione: il margine per correggerle c'è sempre stato. Per capirci: la Sirenetta di Andersen è un libro di inizio Ottocento, Pocahontas è realmente esistita alla fine del Cinquecento, la Bella addormentata nel bosco è una fiaba tradizionale che è stata scritta da molti autori, molto prima che i fratelli Grimm la rendessero celebre nell'Ottocento, peraltro eliminando gli stupri e gli avvelenamenti che c'erano nelle versioni seicentesche.

Nonostante queste revisioni attraverso i secoli e la lente della "magia Disney", le Principesse disneyane sono state messe all'indice come emblemi sessisti o comunque stereotipati (anche se quelle più vintage, come Biancaneve e la Bella Addormentata, sono modelli femminili più all'avanguardia rispetto a quelle degli anni 90, come la Sirenetta, Bella e Pocahontas).

Assieme alla prima (e per ora unica) principessa afroamericana della storia Disney è arrivata anche una valanga di critiche. Tiana, la protagonista de La principessa e il ranocchio (2009), lavora come cameriera facendo turni massacranti al limite della schiavitù (ciao, stereotipo!), le viene impedito di realizzare il suo sogno di aprire un ristorante solo perché è una donna di umili origini (hello, gender bias!) e non ultimo, va considerato che a Tiana per gran parte del film viene negata la sua umanità, visto che si trasforma in una rana.

Ma il polverone più alto si è sollevato un paio di anni fa, quando nel trailer di Ralph spacca internet, del 2018, Tiana è stata vittima di whitewashing, ovvero è stata sbiancata, le è stato disegnato un naso meno schiacciato di quello originale che corrisponde al fenotipo della sua etnia, le labbra assottigliate, i capelli ondulati stile Beyoncé. La Disney ha corretto, ammettendo l'errore. Perché gli errori, quando si fanno, vanno corretti. Contestualizzarli non basta.

Ti è piaciuto l'articolo? Iscriviti alla nostra newsletter per ricevere gli articoli di Cosmopolitan direttamente nella tua mail.

ISCRIVITI QUI