"È morta un’altra donna", scrive Giulia Blasi in Manuale per ragazze rivoluzionarie, "È morta sgozzata, sparata, picchiata, accoltellata. È stata trovata in casa, fuori casa, sepolta in un campo, abbandonata in un bosco. Aveva dei figli, non ne aveva, ne aspettava uno. Era giovanissima, giovane, di mezza età, anziana. È morta un’altra donna, è morta ammazzata, succede in media ogni due o tre giorni: il colpevole è il marito, l’ex marito, l’ex fidanzato, il padre, il fratello, un corteggiatore respinto che fa perdere le sue tracce, si suicida sul posto, monta una messinscena per farlo sembrare un omicidio, nega a oltranza. È una cosa talmente comune che gli investigatori sanno di dover cercare prima di tutto fra i maschi vicini alla vittima: una donna è stata ammazzata, quasi sempre è stato un uomo ad ammazzarla. E molto spesso era l’uomo che lei chiamava 'suo'". Quanto sono attuali qui e ora, nel nostro Paese, queste parole? Lo sono ancora e ancora, continuano ad esserlo al punto che tra il 1 agosto 2020 e il 31 luglio 2021 sono state uccise 105 donne, quasi una ogni tre giorni. Il 12 agosto sono morte tre donne nel giro di 24 ore, due sgozzate, una strangolata. Tra le vittime di questa ondata di violenza estiva c'è anche Vanessa Zappalà, ventiseienne di Aci Trezza, assassinata con diversi colpi di arma da fuoco: è ricercato l'ex fidanzato, già denunciato più volte per stalking. Per quanto ancora continueremo a leggere queste storie a cadenza regolare?

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Le modalità sono sempre le stesse: mariti possessivi, ex amanti che non accettano un rifiuto, un senso di possesso della donna che si trasforma in violenza repressiva verso ogni forma di libertà e autodeterminazione. I dati ci dicono che a uccidere sono in prevalenza partner ed ex partner, ma anche conoscenti e familiari. Sappiamo che si tratta di un reato relativamente nuovo nella sua formulazione (è stato introdotto con il Codice Rosso nel 2019) e che fino a poco tempo fa non aveva nome. Solo adesso, forse, sta iniziando a venire conosciuto e descritto per quello che è: un delitto di una donna in quanto donna per privarla della sua libertà, un termine che non ci dice solo chi viene ucciso ma anche il perché. Come emerge dai dati raccolti dal Censis, in Italia si sta maturando una maggiore consapevolezza dato che il 73,2% dei cittadini sostiene che quello della violenza sulle donne sia un "problema reale della nostra società".

Eppure, come ci dicono i numeri di questi giorni, il problema è grave e persistente: anche se c'è stato un leggero calo rispetto all'anno scorso, i femminicidi nel nostro Paese sono ancora decisamente troppi. Secondo il Censis, poi, il 23% degli intervistati ritiene che sia un problema che "riguarda solo una piccola minoranza" e 4 italiani su 100 sostengono che "non si tratti di un problema, ma di casi isolati cui viene data una eccessiva attenzione mediatica". Permangono anche narrazioni tossiche dove i carnefici vengono descritti come "giganti buoni" in preda all'amore e alla gelosia o come "mostri" fuori dal comune, senza affatto focalizzarsi sugli squilibri di potere sistemici tra uomini e donne, sulla cultura misogina e sulla mascolinità tossica che porta alla violenza. "Non chiamatelo amore, non chiamatelo raptus", è stato infatti il commento di Uil Sicilia sull'uccisione di Vanessa Zappalà, "È solo altro sangue sulle mani di uomini che odiano le donne". Le cose devono cambiare e il cambiamento dev'essere in primis culturale e volto a scardinare stereotipi sessisti che normalizzano e sminuiscono la violenza di genere. La strada è ancora lunga, ma non lasceremo che queste morti siano state piante invano.