Il viso di Aya Mohamed non si dimentica facilmente e nemmeno il suo stile elegante ed estremamente curato che non è mai solo estetica, ma porta con sé sempre una storia. Aya, seguitissima sui social come @milanpyramid, è profondamente coinvolta nel settore dell'alta moda, ha collaborato con brand come Prada, Samsung e Gucci Beauty e sta emergendo rapidamente come figura creativa ed eclettica impegnata su temi sociali, legati all'inclusione e alla lotta a razzismo e islamofobia. Parlando con lei si può spaziare a tutto tondo e con spontaneità dalla moda («Ultimamente apprezzo molto brand come Issey Miyake e Simone Rocha che è estremamente femminile, ma il mio stile è davvero vario», racconta) all'arte, alla religione. Ci racconta del Ramadan e dei suoi ultimi progetti; parliamo del velo che indossa e di come quella di coprirsi il capo sia «una tradizione quasi universale che ritroviamo in tantissime culture». Emerge forte la sua capacità di creare comunità che coinvolge e travalica il suo lavoro.

Nelle mostre e negli eventi creativi che Aya Mohamed cura, la direzione artistica passa anche attraverso le cause in cui crede: la moda si intreccia a panel sul transfemminismo e la violenza di genere con sempre nuove collaborazioni con giovani artisti e attivisti, spesso dal background SWANA (Asia sud-occidentale e Nord Africa), in un mix culturale estremamente vivace. «A me piace pensare che quando mi occupo di direzione artistica o di curatela di un evento o di un progetto fisico o digitale, questo possa in qualche modo diventare un catalizzatore culturale», spiega Aya. Ci racconta di una mostra che ha curato l’anno scorso al Base a Milano su due artisti, uno italo-egiziano e uno italiano che ha vissuto al Cairo. «Potevi incontrare persone di diverso tipo, tutte lì per vivere la stessa esperienza artistica o creativa insieme, dalle pr di un brand famoso alla ragazzina appena uscita da scuola con lo zaino in spalla e il velo».

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Curtesy Photo Aya Mohamed



Parliamo del tuo rapporto con la moda: ci racconti quando è iniziato tutto?

«La moda mi ha appassionata sempre, fin da piccola. Mi ricordo che a 10 anni ho provato a cucire la mia prima t-shirt: è stato un totale fallimento! Però già conoscevo i brand e sperimentavo con il mio stile. Se riguardo le foto al liceo ogni sei mesi ero una persona diversa perché volevo capire cosa mi piaceva e cosa no. Anche i miei genitori mi hanno influenzato in questo perché sono grandi amanti della moda e dei prodotti ben fatti. Mio papà ha una selezione di Prada Linea Rossa che non so a quando risale. Molte delle sue giacche le indossiamo ancora oggi e ho una serie di gonne di mia mamma di quando aveva la mia età».

Una passione prima e un lavoro poi.

«Inizialmente non pensavo di lavorare nel mondo della moda, tutto è nato dai social. Sono sempre stati per me innanzitutto un un luogo per creare comunità, per condividere le mie opinioni e le mie esperienze a livello sociale. Ho iniziato a parlare di cosa volesse dire per me essere una donna musulmana velata in Italia e ho visto come la mia esperienza risuonava con quella di tantissime altre persone che si sentivano marginalizzate. Allo stesso tempo io mi esprimevo attraverso la moda e continuo a farlo tutt'oggi, quindi c'è stata una sorta di unione tra la moda e la mia voce».

Cosa ti rende più orgogliosa del tuo lavoro?

«Più che di orgoglio preferisco parlare di gratitudine. Mi sto impegnando molto in questo momento a dare voce ad artisti e creativi emergenti, soprattutto con il mio stesso background culturale. Questa cosa mi rende molto, molto grata».

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Courtesy photo Aya Mohamed

Sei nata in Egitto e sei cresciuta Italia: cosa significa fare esperienza di entrambe le culture?

«È stato coniato un bellissimo termine: “Third culture kids” e io e tantissimi figli di diaspora, possiamo essere tranquillamente definiti così perché è piuttosto come se avessimo creato una terza cultura che unisce la nostra cultura d'origine e la cultura del Paese in cui viviamo. Ci sono cose che solo noi possiamo capire o vivere perché è proprio una dimensione a parte dato che per certi aspetti non ti senti pienamente a casa nel luogo dove vivi, né nel tuo Paese di origine. Per me, però, non non c'è un contrasto, è un percorso che ogni giorno mischia le due cose.

Che rapporto hai con l’Egitto?

«Un rapporto molto bello, che sento mi lega molto alle mie origini, al mio heritage e ai miei antenati. E sono molto fiera di questa cosa. Cerco di tornare ogni anno e stare più tempo possibile, assorbire il più possibile questa cultura che in un certo senso non ho avuto la possibilità di vivere. Quando si è figli di diaspora spesso non si è noi a decidere dove vivere, la decisione viene presa per noi. Oggi da adulta e matura ho la possibilità di trovare il modo di vivere queste due realtà, tornando lì il più possibile ma anche cercando di creare una comunità qua».

Anche la moda ha un ruolo in tutto questo.

«Per me la moda è sempre stata identità, è sempre stata espressione artistica ed espressione di chi siamo. Nel momento in cui la mattina ci svegliamo e decidiamo cosa metterci scegliamo cosa comunicare all'esterno, attraverso i nostri vestiti senza parlare. È una forma di comunicazione non verbale e nel momento in cui una persona è fiera della propria identità e si sente piena di questa, viene naturale volerlo condividere all'esterno. Nel mio caso anche indossare il velo è espressione della mia identità, espressione di chi sono e di che cosa voglio raccontare all'esterno».

Ti sembra che in Italia stia cambiando il modo in cui il velo viene percepito?

«Vorrei dire di sì, ma ultimamente non c’è un bel clima. Le donne sono più esposte perché sono visibilmente musulmane e ci sono molti pregiudizi. Il velo viene visto come una cosa che è imposta, che è forzata, non viene visto come la scelta di una persona, associamo il velo a non avere diritti, non avete libertà, non avete voce. Come se le donne musulmane non avessero la stessa intelligenza».

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Courtesy photo Aya Mohamed

Il femminismo può aiutare a smantellare questi stereotipi?

«Ho avuto anche esperienze in cui mi hanno detto “Tu porti il velo quindi non puoi capire il femminismo”. Io comunque mi definisco femminista, però credo che l'esperienza femminile non possa essere unica e universale e applicarsi indipendentemente da quelle che sono le culture e le tradizioni di un popolo. Sicuramente il femminismo intersezionale sta cambiando molto questa narrazione ed è importante mostrare la diversità delle esperienze femministe che esistono».

Oggi in Italia l’islamofobia sta peggiorando?

«Oggi è molto palese. Ricordo che un anno, quando ero piccola, nel mio asilo, dove c'erano molte persone straniere, le maestre avevano organizzato una festa mi sembra proprio in occasione del Ramadan. C'è una foto di me con tutti i dolci che mangiamo a fine Ramadan, una cosa bellissima».

Come stai vivendo il Ramadan quest’anno?

«Per noi è un momento molto speciale, un momento di condivisione e di collettività. Ogni anno mi dico “Quest'anno cerco di rallentare un po’ e godermelo di più” ma poi mi ritrovo che sono sempre piena di idee e progetti perché mi piace poter mostrare alle persone come lo celebriamo e come lo viviamo. Ogni anno cerco di trovare un progetto dedicato».

Raccontami il tuo preferito.

«Quello durante il lockdown nel 2020. È stato strano perché durante il lockdown non potevamo uscire di casa e io volevo cercare di ricostruire un’unione, anche se digitale e allo stesso tempo dare la possibilità anche a chi non lo pratica di vedere e vivere quello che noi viviamo. Così ho organizzato delle newsletter settimanali in cui delle persone da tutta Italia hanno raccontato come stavano vivendo il Ramadan. Alla fine abbiamo creato una sorta di libricino digitale con tutti i racconti e le fotografie di persone con vite diverse, dalla signora di 50 anni che si è convertita all'Islam quando ne aveva venti alla coppia appena sposata».

Percepisci molta curiosità su questo tema?

«C'è molta curiosità e ci sono tanti diversi tipi di curiosità. A me piace comunque vedere le cose in ottica positiva. Mi fa ridere che ogni volta le persone mi chiedono “Ma quindi neanche l'acqua?” È la domanda classica, arriva ogni anno, ma non mi sembra ci sia cattiveria dietro, è naturale curiosità».

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Courtesy photo Aya Mohamed

Di solito come passi l’Iftar, il pasto che interrompe il digiuno dopo il tramonto?

«C'è molta convivialità. Questa domenica, ad esempio, l’ho organizzato con una mia cara amica, Miriam Fahim. Lei è di origine marocchina e i suoi genitori vivono in Italia ma in un'altra città. Mi ha detto che spesso passa l’Iftar a casa da sola e allora ci siamo chieste “Perché non organizziamo qualcosa per tutti, per tutta la nostra comunità, per le persone che sono nell'ambiente creativo, artistico musicale a prescindere che siano musulmane o meno?”. Io credo che spiritualità e religione siano due concetti che possono viaggiare sia separatamente che in unione e in realtà non serve essere una persona religiosa o spirituale per festeggiare insieme. Con questa cena abbiamo voluto aprire la nostra tradizione anche ai nostri amici per dar loro uno scorcio della nostra esperienza e allo stesso tempo sentirci a casa. L’abbiamo chiamata “Marhaba” che significa “benvenuti”».