L'ha detto, benissimo, il filosofo Umberto Galimberti, ospite su La7 della trasmissione L'Aria che tira, commentando il caso dell'omicidio di Giulia Cecchettin: «I maschi crescono nelle case all’interno di un amore incondizionato, che è quello dei genitori nei confronti dei figli». «Quando si innamorano», spiega Galimberti, «entrano in un amore condizionato dai reciproci vantaggi dei due innamorati. Qualche giovane non ce la fa a passare dall’amore incondizionato della mamma, che protegge comunque il figlio, all’amore condizionato della ragazza che vuole essere libera».

xView full post on X

La condizione a cui fa riferimento il giornalista è spesso il non voler più le attenzioni e la relazione stessa, come nel caso di Giulia, e con il triste epilogo che tutti conosciamo. Un rifiuto finito in tragedia.

Accettare il no in amore

E allora inutile girarci attorno: il rifiuto fa male, male da morire, (come direbbe Tiziano Ferro). È una sberla in faccia, un gesto che fa sentire sbagliati, fuori posto, non all'altezza. Di una relazione, di un posto di lavoro, magari proprio di quella relazione/posto di lavoro in cui si è investito tanto e che un po' ci definisce. Genera frustrazione, insicurezza e sensi di colpa a mille.


Elaborare un rifiuto è un percorso spesso tortuoso, dicono gli esperti, perché imparare quest'arte presuppone maturità, accettazione di sé, dei propri limiti. E rispetto per la persona che quel “no” (sensatamente motivato o no) l'ha pronunciato.

È un viaggio complesso perché ci viene chiesto, ogni santo giorno, di essere altamente performanti, di centrare tutti gli obiettivi – il fallimento non è un'opzione accettabile - perché spesso siamo cresciuti nella convinzione che quello che desideriamo deve accadere in modo gradevole o soddisfacente per i nostri interessi, tutto subito, tempo d'attesa zero. Alla luce di questo modo di pensare si costruiscono schemi e rappresentazioni del mondo inesistenti, perché fallimento e rifiuto fanno parte della vita. Uno spoiler? Cercare di evitarli non servirà, prima o poi ci tocca.

Fuori dalla comfort zone (per chi ha la fortuna di considerarla tale) della famiglia che ci ha protetto e sommerso di amore/considerazione – va detto, qualche genitore esagera -, gli altri rapporti che costellano la nostra esistenza sono meno facili o gratuiti, vanno costruiti ogni giorno e a volte, per quanta costanza, pazienza e coraggio possiamo usare, vengono giù come castelli di sabbia. Serve allora la costruzione di una mentalità “antifragile”, capace cioè di capitalizzare esperienze così sgradevoli e trasformarle in esperienza, in forza, in possibilità concrete di miglioramento. Non si tratta di creare un approccio alla vita forzatamente, inequivocabilmente positivo quindi naif, ma di evolvere, comprendere l'importanza del disordine che ribilancerà il nostro ordine. Significa accettare che esistono rabbia e dolore e contemporaneamente che abbiamo tutti risorse per non farci devastare da rabbia e dolore.

Tollerare il fallimento, metabolizzare un rifiuto significa cavalcarlo, modificando certe idee irrazionali che ci passano per la testa (tipo: sarà sempre così, fallirò sempre), passando dalla pulsione all'elaborazione di un'emozione, trasformando, soprattutto, il modo in cui parliamo di noi stessi. Un fallimento consapevole fa ancora male, sì, ma non male da morire.