Calato il sipario sulla settimana della moda di New York, la prima delle quattro che scandiscono il calendario del Fashion Month, come ogni stagione giornalisti e critici di moda hanno detto la loro sulla situazione dell'industria. In particolare, ad accendere la discussione online è stato un pezzo di Cathy Horyn, Fashion Critic-at-Large di The Cut, focalizzato sul ruolo del talentodei designer nella scena contemporanea.

Sin dalle prime righe dell'articolo, intitolato Lost in the Machine a partire da una citazione di Sidney Toledano, CEO del gruppo LVMH, Horyn instaura un parallelismo tra il presente e gli anni Novanta per sostenere che oggi come allora la moda necessita urgentemente di un rinnovamento. All’epoca, a liberare l’industria da quella che la storica di moda Valerie Steele definisce una «paralisi progressiva», furono designer come John Galliano, Marc Jacobs, Miuccia Prada e Martin Margiela. Horyn racconta che nessuno sapeva mai cosa aspettarsi dalle loro sfilate, che durante le loro presentazioni veniva ribaltata qualsiasi concezione comune, e che questo approccio sovversivo ha portato a creazione sorprendenti: correre il rischio si è rivelato la vera chiave del progresso nella moda dell’epoca, ma negli ultimi anni, secondo la critica, si è nuovamente verificato «un forte rallentamento sia del rischio sia degli innovatori», cioè i creativi pronti a correrlo.

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Pierre VAUTHEY//Getty Images
Dalla collezione Haute Couture autunno inverno 1999/2000 di Christian Dior.

La scrittrice statunitense afferma che la principale motivazione è che i grandi marchi hanno cominciato, o meglio, sono tornati, a «concettualizzare la moda come lusso», considerandola unicamente come espressione di uno status. Per esempio, attualmente la priorità è mostrare ricchezza senza ostentarla, tendenza, come ricordato da Horyn, ormai definita «quiet luxury», e che implica che «sempre meno designer si concentrino sulla moda»: citando come esempi i lavori di Maria Grazia Chiuri per Christian Dior e di Virginie Viard per Chanel, spiega che i direttori creativi oggi «si concentrano su qualcos'altro, come creare collezioni attorno a un nuovo tema stagionale ripetendo forme e silhouette di abiti che le persone hanno già visto prima».

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Dalla collezione Resort 2024 di Chanel.

Considerando che i dati parlano chiaro e confermano che si tratta di una strategia direttamente riconducibile a un vertiginoso aumento del fatturato, Horyn riconosce che questo cambiamento di rotta e di priorità da parte dei brand: «renderà sempre più difficile per i giovani designer con una formazione tradizionale portare avanti la propria carriera come direttori creativi nelle aziende europee» perché il ruolo «riguarderà sempre meno la progettazione» dei vestiti e sempre più la comunicazione. Le case di moda «vogliono qualcuno che sia bravo a raccontare storie ed esperto di comunicazione digitale, qualcuno che abbia una presenza pubblica, che possa coltivare un seguito, che abbia riferimenti culturali in grado di coinvolgere il pubblico globale» spiega Kathy Kalesti, Ascent Global Talent di base a New York, «che allo stesso tempo abbia rispetto per il lato commerciale e per il marketing». Basti pensare alla nomina di Pharrell Williams come direttore creativo di Louis Vuitton.

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Dalla collezione menswear primavera estate 2024 di Louis Vuitton.

In sintesi, se un tempo i brand dipendevano dai designer emergenti e dal loro impulso creativo, oggi sembrano aver perso l’interesse nel coltivare e promuovere il talento. Da un lato, scrive Horyn, è «improbabile che grandi marchi come Chanel e Valentino scommettano su dei giovani talenti», ma dall’altro sono sempre meno i creativi disposti a entrare in tali dinamiche. Il succo è che «ci troviamo allo stesso punto degli anni Novanta», quando l’industria di moda mostrava un urgente bisogno di modernità e cambiamento. Non rimane che scoprire se i dirigenti dei grandi brand avranno ancora «il coraggio» per correre il rischio di puntare sul talento, ma anche «il know-how» e la consapevolezza necessari per individuarlo, dal momento che il numero di dirigenti provenienti da altri settori che potrebbero «bloccare per sempre l’innovazione nel design» nelle aziende aumenta rapidamente.

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L'articolo di Cathy Horyn è stato pubblicato su The Cut martedì 12 settembre, nel penultimo giorno di calendario della settimana della moda di New York. Nel giro di poche ore è diventato virale, cliccato, commentato e ricondiviso da giornalisti, addetti al settore e appassionati di tutto il mondo – in Italia, Giuliana Matarrese lo ha introdotto come un «capolavoro di costume» nelle sue Instagram story. Sotto il post condiviso in collaborazione da The Cut e New York Magazine sono centinaia gli utenti che hanno ribadito alcuni punti toccati da Horyn o esteso il discorso ad altri ambiti creativi. «Questo è quello che succede quando i monopoli fanno sommossa e si preoccupano solo dei margini di profitto trimestrali», scrive Michelle Fite, «aspettarsi che i designer si occupino degli azionisti e si concentrino sulla crescita costante è insostenibile e uccide la creatività», mentre Andy Villasana sostiene «che si possa dire la stessa cosa dell'industria dell'interior design». Il tutto mentre numerose testimonianze di prime, e spesso negative, esperienze come fashion designer si alternano a una lunga serie di «Amen» come quello di Bryan Boy.