Esce il 22 marzo Leon, il secondo album di Leon Faun, all'anagrafe Leon de la Vallée, che sceglie di chiamarlo con il suo nome, come fosse una dichiarazione di intenti. Questa volta, a tre anni di distanza da un primo lavoro che teneva al centro la fantasia, sceglie di parlare di sé, mostrandosi senza quei filtri dietro a cui nascondersi, creati dai personaggi immaginari delle sue canzoni: «Ho avuto l’esigenza di scrivere senza barriere. Qui vado al sodo». Tredici tracce in cui dice quello che pensa, senza paura di tirare dentro la sua visione del mondo, la politica, il buio degli ultimi tre anni, dalla morte di suo padre alla chiusura del Covid poco dopo l’uscita del suo primo disco, la pressione dei social. 23 anni, romano, è anche attore: esordisce nel 2019 in La terra dei figli e ora lo vedremo su Netflix in Briganti.

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Con questo secondo lavoro Leon si sposta da un rap positivo a brani più pop, collaborando di nuovo con Duffy, il suo amico di infanzia che da sempre gli cura le produzioni, questa volta coinvolgendo anche False e Sick Luke. Ci mette dentro tanti colori, e li mette anche in copertina, lasciando una tela bianca perché per la prima volta ha voglia di dedicare spazio alla sua intimità, al suo contenuto: «Trasparente nei testi, sincero. Ho sempre scritto altre sceneggiature, questa volta la sceneggiatura è vuota». Dentro c'è anche tanta rabbia: «Ma sto imparando a gestirla». Lo incontriamo a Milano, in zona Navigli, dove dopo uno showcase per presentare le sue nuove canzoni che non vede l’ora di suonare live il 10 maggio a Roma e il 12 maggio a Milano, si racconta.

Di solito il proprio nome si sceglie come titolo per il primo album.

«Ci ho ragionato tanto, ma per la prima volta presento la mia persona, non l’ho quasi mai fatto, ho sempre creato mondi e sceneggiature, creavo immagini che non raccontavano la realtà. Questa volta mi presento in forma umana».

Nelle tue canzoni si sente tanta rabbia, canti anche “perdonami mamma per l’odio che provo”. Da cosa deriva?

«La rabbia che ho dentro è sempre stata dettata dal rapporto di odio e amore che avevo con mio padre. Eravamo in conflitto su un milione di cose, ci scontravamo tutti i giorni, anche per cose futili, ma l’arte era il nostro punto di incontro, anche se avevamo gusti diversi. Ci ascoltavamo. E se ho iniziato a fare quello che faccio è anche per trovare un collegamento con lui. È mancato un mese prima che uscisse "Oh Cacchio" e che venissi scelto per il mio primo film. Avrei usato l’arte come valvola di sfogo per superare quel momento ma è arrivato il Covid. La rabbia mi ha sovraccaricato. Da lì ho avuto problemi. Attacchi di rabbia, ci sto lavorando».

Da solo?

«Sì. Ho cambiato otto psicologi, ma non ci riesco. Non riesco a farmi aiutare. Quando canto “il mio psicologo non mi dà le cure” intendo questo. La terapia è stata la musica. Ho iniziato a farmi domande e cercare risposte. Prima mi tenevo tutto dentro».

Arrivi da una famiglia di attori, ma hai scelto la musica. Da dove è arrivata?

«I miei genitori mi hanno sempre ispirato dal punto di vista recitativo. Mio padre però cantava anche, strimpellava la chitarra, suonava un po’ il pianoforte. In casa ho sempre avuto musica. Per me è stata un’esigenza perché non avevo i soldi per finanziare un mio film o un mio cortometraggio e quindi facevo i videoclip musicali, mi divertiva scrivere. Durante le riprese del mio primo film ho pubblicato "Oh cacchio" e il successo che ne è derivato è stato inaspettato».

Come vivi le aspettative, i numeri, la fama?

«Prima mi importava di più, ora cerco di rapportarmi meglio alla realtà, di non subire il confronto con gli altri. Cerco di fregarmene, di non pensare ai numeri. Non ho messo feat anche per questo. Sono soddisfatto del mio disco, a prescindere».

I social quanto pesano su questa generazione?

«Parecchio. Più che altro c’è un problema di soglia dell’attenzione e siamo sempre portati al confronto con qualcosa o qualcuno. Si pensa che gli altri abbiano una vita migliore, che lavorino di più… Porta sconforto. Bisogna semplicemente imparare a viversi, accettarsi, ascoltarsi soprattutto, che è qualcosa che non facciamo più».

Ti esponi anche su temi di politica e canti con sarcasmo che i cantanti non dovrebbero parlarne.

«Penso sia un’enorme stupidaggine non esporsi, anzi è doveroso parlarne, dal momento in cui abbiamo una visibilità e abbiamo il potere di farci ascoltare è giusto farlo. In quest’album parlo di quello che penso, è giusto. Come è giusto incazzarsi e continuare a dare voce ad alcune tematiche senza rimanere in silenzio. Sono contento quando i miei coetanei alzano la testa».

Canti anche l’amore… E non sembri fortunatissimo.

«L’amore è una cosa che va capita, va studiata. È un discorso complicatissimo ma anche per l’amore vale il discorso di imparare ad ascoltarsi, ascoltando però anche l’altra persona. Ci sto provando».

"Fuga da Genova" parla di te?

«La canzone è nata da una delusione amorosa dovuta a un incontro con una ragazza toscana, trasferita si a Roma per studiare. Mi parlava sempre del suo amore per Genova, voleva andarsene, è stato il fulcro della rottura».