Barbie, non si può smettere di parlarne. Superate tutte le previsioni di incasso, è un Gladiatore del 2023, al posto della spada, i pattini a rotelle. Qui tra poco diventerà pieno di spoiler, come si chiama quel gesto di educazione contemporanea che prevede mantenere segreti di Pulcinella sennò rovini la teledipendenza degli altri. Insomma se avete paura, fermatevi in tempo.

Non poteva andare diversamente, per Barbie, la macchina del marketing aveva mille cavalli. Sono andata al cinema a vederlo, non era l’anteprima ma c’erano settanta metri di fila per due o tre spettacoli di seguito, gente vestita di rosa per girare i video Instagram, chi litigava per l’overbooking, chi emetteva gridolini di attesa, ansia già prima dell’inizio, ragazzini di diciott'anni. Insomma tutto diceva che sarebbe saltato il banco, soldi a catinelle. Gran finale: overbooking! Chi rimane fuori, chi si offre di pagare lo stesso e sedersi per terra, chi litiga con l'addetto alla fila. Tutto questo succedeva dentro un cinema. Il venti luglio. Capite la proporzione del miracolo.

Cose indovinatissime di Barbie

I primi cinque minuti. Paesaggio post asteroide. Gruppo di bambine che giocano un poco schifate coi bambolotti. Chi stira, chi stende i panni, chi dà il latte al cicciobello. Arriva la divinità, la grande mater, Barbie gigante in costume intero righe-Côte d'Azur-1970. Le bambine si guardano tra loro interdette, e poi capiscono la truffa del bambolotto, del ferro da stiro, dello stendino. Parte la musica di Odissea nello spazio, il germe della liberazione si moltiplica, le bambine si ribellano, rompono tutto, spezzano le catene, mai più prigioniere dello stereotipo. Mogli e madri, ma perché? Chi l’ha detto? Per forza cicciobello? No. C’è Barbie.

Ken. Mille cose sono state dette di Ken, tranne una. Immediatamente un applauso da spellar le mani per chi ha scelto quel punto di platino, l’ossigeno per la tintura ai capelli. Con quel biondo, subito sembra un babbeo. Quando sorride ancora peggio. Prima dei vestiti, prima della spiaggia (che lavoro fai? la spiaggia), prima del copione, prima di quegli addominali ridicoli. La spettatrice è ipnotizzata da quel finto-biondo che rende perfino sessualmente inconsiderabile Ryan Gosling. Uno scemo e più scemo con riscatto finale. Maltrattato da una Barbie senza vagina insensibile a qualsiasi supplica carnale. Poi, dopo una breve parentesi da maschio patriarcale tossico, come direbbero i woke, si affranca pure lui dalle sue schiavitù ma già non ci interessa da un pezzo.

Fa una tenerezza, Ken. Al seguito della comandante Barbie come un cagnolino gentile. Esiste perché c’è lei. Non è mai stato campione di vendite, poverocristo, tanto che Mattel, disperata, qualche anno fa gli ha cambiato il guardaroba, l’ha ripettinato e gli ha fatto il man bun, l’ha vestito coi calzoni corti di jeans. Non è servito a granché. A nessuno davvero importa di Ken, soprattutto a Barbie, Barbie esisteva nelle nostre vite per cambiare scarpe e vestiti, non per le smancerie con Ken. Ken non era previsto, nel mondo di Barbie. Non entrava nemmeno nell’ascensore. Non guidava il camper, ha sempre guidato lei, anche coi tacchi. Chi di noi ha mai comprato un Ken, diciamoci la verità, mai visto in nessuna cameretta delle amiche di scuola, da nessuna parte. Ken c’era perché ci doveva essere un maschio, da qualche parte. C’era ma non era invitato ai giochi.

E così lo ha pittato Gerwig: inutile e da un certo punto in poi, frustrato. A un certo punto del film si incarica di diventare il cattivo patriarcale, ma viene fuori una caricatura fessa, con una pelliccia bianca da Sylvester Stallone, e il Truman Show di Barbieland cambia, perché ora comandano loro, i Ken. O almeno ci provano.

Il nostro Ken-Gosling (che nel frattempo ha studiato tutti i libri sul predominio dei maschi sulle femmine) s’appropria della casa di Barbie. La presa della Bastiglia durerà cinque minuti, le Barbie si coalizzano daccapo, la sisterhood funziona, il mondo è salvo, le femmine sono di nuovo in testa.

Segue crisi esistenziale di Gosling, che si risolve subito dopo. Ken guarisce, finalmente è chiaro che deve farcela da solo, senza la turbobionda. Il suggello junghiano è la felpa I am Kenough. Ken è abbastanza, anche da solo. Ci si potrebbe pure credere. Le bambine continueranno a non comprarlo, intanto la felpa va sold out.

A voler scavare meglio la metafora, è Ken la ragazza eternamente subalterna. Ken siamo noi. E’ Ken che alla fine fa un po’ pena, non Barbie. Gerwig qui fa un piccolo capolavoro autoriale, rovescia il costrutto di genere. Se provi ad allargare la prospettiva, Ken spiega le pressioni che la società esercita sulle donne, le piccole rivincite illusorie, coi forti (qui sono le Barbie) che ristabiliscono sempre il loro ordine. Ma la faccenda didascalica si farebbe incredibilmente intricata, è un’altra storia, questa, e magari la raccontiamo la prossima volta.

Margot Robbie. Attrice, produttrice, bellissima scaltra di incredibile talento. Dopo quanta perfezione si diventa ingiusti?

Cose meno indovinate

Trama. La storiellina dopo la prima mezz’ora si fa davvero stentata. Miserella. Mondo immaginario-mondo reale. La mamma boomer e la figlia moderna che non si parlano. Redenzioni, in numero di troppe. Mille metafore tutte assieme e manco mescolate. Gli autori devono sempre stare attenti all’omelia. Il pulpito è bello quando dura poco: il messaggio importante è un’arte, se non sei capace, pare sempre che ti stiano schiacciando la faccia nel piatto per farti mangiare. Lo spettatore è scemo, sì, ma fino a un certo punto. Pietà di noi, meno lezioncine fateci il piacere. Vedi il monologo di America Ferrera, che dovrebbe essere il punto alto e invece è il crepaccio.

Il monologo America Ferrera, appunto. Purtroppo è vecchissima solfa e condita pure male. Il migliore editoriale sui corpi moderni e le fregature autoinflitte l’ha scritto Tina Fey più di dieci anni fa, in Bossypants (se proprio andavate cercando un capolavoro di femminismo, eccolo):

Penso che il primo vero cambiamento dell’immaginario, per i corpi, sia venuto dopo J-Lo. Era la prima volta che essere larga scala in zona sedere diventava mainstream. Le ragazze iniziarono a volere i culi, e i maschi erano finalmente liberi di ammettere che gli erano sempre piaciuti. E poi, due secondi dopo, boom, Beyoncé portò le cosce. Così da quel giorno in poi le donne capirono che la diversità era un valore e tutte le forme e tutte le taglie divennero bellissime.

Scherzavo. Ci avrete mica creduto? Quello che hanno fatto Beyoncé e J-Lo è solo aggiungere altre tacchette alla lista di quello che devi avere per essere considerata bella. Adesso a ogni femmina servono labbra latine carnose, piccolo naso classico, pelle liscia da asiatica e abbronzatura tono California, culo da ballerina giamaicana, gambe da svedese, braccia di Michelle Obama e tette da Barbie.

La persona più vicina a questo modello al momento è Kim Kardashian, che come tuttisanno è un esperimento dei russi per sabotare i nostri atleti.

La scena semifinale. Con lacrima. Barbie vuole provare i sentimenti. Povera creatura, quanta plastica ha sopportato. Greta Gerwig torna in sé due minuti dopo, s’accorge che ha zuccherato troppo questo té freddo estivo e manda Barbie dal ginecologo a chiedere una vagina. Risatelle del pubblico. Titoli di coda. Ci si guarda in faccia tra vicini di posto cercando recensioni. Interessante esperimento andare a vedere questo film, rimani giusto in bilico tra “pensavo meglio” e “pensavo peggio”.