Esce il 10 maggio Acqua, il nuovo Ep di Ele A, all’anagrafe Eleonora Antognini, rapper svizzera classe 2002. Sette nuove tracce nate in momenti diversi, tra canzoni che esistevano già e altre scritte a due giorni dalla consegna, dopo aver fatto le ore piccole ritrovandosi in studio con la voglia di buttare fuori pensieri. Il filo conduttore è l’acqua protagonista in "Nodi", "Oceano", "Gocce" ed è l’elemento che più ama: «È la principale attrazione della mia città». Viene da Lugano, anzi da un piccolo paesino di provincia, immerso nella natura e che ha nel lago il suo centro. Ed è la natura a riconnetterla con i suoi pensieri, a darle pace, in una società immersa negli schermi dei telefoni e nella rincorsa di un futuro che fa paura. Nelle sue canzoni unisce passato e presente, gli anni ’90 si fondono con il quotidiano, racconta l’ansia della sua generazione usando la musica come specchio. La suonerà live per tutta estate in un tour outdoor con data al MiAmi di Milano il 24 maggio. E proseguirà in autunno nei club.

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Se ti guardi attraverso le tue canzoni cosa vedi?

«Mi vedo a parlare con la gente, a lasciarmi ispirare dalle loro storie. Io racconto la quotidianità, mia e delle persone. Mi piace proprio sentire cosa hanno da dire, rimango affascinata dalla loro percezione delle cose che poi racconto anche con la mia prospettiva. Amo gli aspetti psicologici».


Canti “Mi pagano per fare psicanalisi”. La musica serve ad analizzarti?

«Mi piace proprio analizzare le persone, il modo in cui pensano. E lo faccio tanto, pure troppo, su di me».

Terapia vera l’hai mai fatta?

«Dovrei… Ma no, non l’ho mai fatta. Sono consapevole di quali siano i miei punti deboli e sicuramente ci sono cose che non conosco, ma ho paura forse immotivata, ma reale, che se trovassi lì una valvola di sfogo per quello che sento e provo, non riuscirei più a usare la musica per farlo. Ho una grande necessità di buttare fuori e uso la scrittura».

Quando hai capito che la musica era la tua strada?

«Mi è sempre piaciuto scrivere, anche a scuola, nei temi di italiano. Ho sempre scritto poesie in rima, che alla fine sono rap. È sempre stata una necessità e, come credo per tutti gli artisti, è impossibile ignorarla. In quarantena nel 2020 mi sono ritrovata in casa, lontana dal giudizio diretto degli altri, e in quella bolla ho iniziato a registrare. Con un microfono di mio papà, con le cuffiette del telefono. Ho avuto più tempo, ho iniziato così».

Perché tuo papà aveva un microfono?

«Aveva registrato in passato per alcuni lavori che faceva per la televisione, per fortuna non lo ha venduto con tutto il resto della sua attrezzatura».

Hai vissuto in un piccolo paesino in provincia di Lugano, ti senti influenzata dai tuoi luoghi d'origine?

«Il rap in generale è super legato al senso di appartenenza, al proprio paese di origine. Non vuol dire che io racconti sempre quel tipo di quotidianità ma credo che si senta la mia terra nelle canzoni che scrivo, più nel modo in cui vedo le cose che nel dichiarare apertamente da dove vengo».

Quando torni lì che cosa succede?

«In paese ci sono 300 persone, sono pochissime. Non è che succeda molto, al massimo c’è l’anziana signora alla finestra che sbircia. A Lugano invece c’è una mentalità strana, finché sei nell’underground sono tutti amici, appena inizi a fare più cose ti schifano, poi se però ce la fai veramente quando torni è gloria assoluta. Io al momento ho sicuramente più supporter a Parigi che a Lugano».


Come sta cambiando la tua vita ti sta piacendo?

«A volte è faticoso. Sono super grata, poter vivere di musica era un sogno irraggiungibile e quindi per me è già un traguardo enorme. Ho grandi ambizioni e proverò a realizzarle, ma sono davvero contenta. Però è difficile uscire dalla propria zona di comfort. Se vuoi fare davvero musica devi metterti a nudo e non è sempre facile, mi piace proprio il comfort».

Dalla Svizzera a Milano, è un grande salto fuori dal comfort. Come va?

«Quando cresci nella natura dove c’è uno specchio d’acqua, ma la natura in generale, poi ti manca tantissimo».

Nel brano “Nodi” il lago è lo specchio in cui ti rifletti, per capirti.

«Al lago analizzo meglio i miei pensieri, è un luogo che cristallizza i momenti. Mi dà una calma che sicuramente non ritrovo in città. La natura ti rimette in contatto con te, ti fa capire quanto sei insignificante, di quanto tutto si muova da solo. Il lago è una miniatura del mare e quando vedo anche il mare, ho proprio un’altra visione delle cose».

La tua generazione ti sembra più attenta alla natura e all’ambiente?

«Da una parte siamo gli unici che possono farlo, le generazioni precedenti non hanno fatto il loro meglio. E forse non è neanche colpa di nessuno. Ma mi rendo conto che la mia generazione non guarda al futuro con ottimismo. Sentiamo la pressione, alimentata anche dai social, ci pesa. Ed è come se vedessi la rassegnazione di chi accetta lo stato delle cose pensando che ormai non si possa fare più niente. Vedo molto immobilismo e forse è proprio colpa dei social».

In che senso?

«Siamo abituati a vedere le cose da spettatori e non da attori principali».

Tu usi i social?

«Li uso solo per pubblicare, poi non li guardo. Mi rendo proprio conto di quanto influiscano in maniera negativa e io non riesco a guardarli in modo oggettivo. Sono cresciuta con i social, li conosco benissimo, sono consapevole delle trappole, ma mi accorgo che influenzano il mio pensiero. Guardo un contenuto e penso una cosa, leggo un commento e ne penso un’altra. Non mi piace e si riflette anche su quello che penso di me. Non sono mai stata una persona troppo sicura, alimentano le mie pare».

C’è molto amore in quello che canti. Hai più sofferto o più fatto soffrire?

«Forse ho più fatto soffrire. Tempo fa non mi sono comportata molto bene con alcune persone, poi però dipende anche dal momento, con il senno di poi ti accorgi che non era realmente come lo stavi vivendo. Io tendo a scaricare il dolore in altre cose e forse per amore non lo sento neanche così tanto. Anzi a volte mi manca proprio, perché divento molto apatica. E il dolore mi manca».

Non è una protezione?

«Forse. Da noi, ma anche nella mia famiglia, c’è molto questa modalità di nascondere i problemi, per far finta che vada tutto bene, per non far stare male gli altri. È proprio un elemento che ritrovo in tutti e quindi non è semplice imparare ad ascoltarti e capirti, accettando di stare male».

Questo disco, come il precedente, è pieno di riferimenti di suono ma anche di contenuto agli anni ’80 e ’90. Da cosa arrivano?

«Mi ci sono avvicinata da sola. Sicuramente qualcosa arriva dai miei nonni, soprattutto dal mio nonno paterno che mi ha sempre fatto vedere i film del passato, ma in realtà quando ho scoperto l’hip hop mi sono legata a quell’immaginario anni ’90 e se ricevevo un input e qualcuno citava qualcosa, andavo a cercarla con mio fratello che è più piccolo e mi chiedeva cosa fosse per esempio Scarface. Mi piace anche l’estetica di quegli anni, i vestiti baggy, le auto, l’architettura, tutto».

A tuo fratello piace avere una sorella rapper?

«Siamo super legati, andiamo d’accordo, mi ha sempre supportata. All’inizio facevamo freestyle insieme, così per gioco. Anche a lui piace molto la cultura hip hop. E quando viene ai miei live è sempre una hit».


Donna nel rap è complicato?

«Non ho mai dato peso al genere, non ho mai fatto distinzioni. Siamo diversi e magari il modo di raccontare le cose di una ragazza è diverso da quello di un ragazzo. Certo mi piacerebbe sentirne di più. Ma sono fiduciosa, è solo questione di tempo».