Mi parla dalla Corea con voce energica e risate rumorose. A ridere bisogna essere allenati e Giulia Lamarca lo è di sicuro. Giulia è una "change maker”, perché dove c’è Giulia il cambiamento accade e, magari, lì per lì non te ne accorgi, ma quando hai finito di parlarci lo sai per certo, perché anche a te sembra di saper sorridere meglio. Classe 1991, attivista, mamma, content creator è salita con la sua carrozzina in cima al mondo, sul monte Machu Picchu già nel 2017 e non si è mai fermata. Da gennaio, infatti, sta esplorando ogni Paese e continente con Andrea, suo marito e la piccola Sophie che a soli 7 mesi ha già visto più di quanto molti di noi probabilmente vedranno mai. Nell'ultimo periodo su TikTok, è diventata famosissima proprio grazie a quella sensibilizzazione sul tema della disabilità che è arrivata quasi involontariamente. «Le persone erano curiose di sapere come faccio a fare questo, quello, quell'altro. Curiose soprattutto del sesso», a cui ha dedicato uno slot di domande nelle sue storie di Instagram. La risposta che compare più spesso? «Normale».

Il tema della complessità ritorna spesso sia nei tuoi video che nelle interviste, secondo te come si può non polarizzare la narrazione della disabilità tra visione o eroica o pietistica?

«Io credo che il segreto stia nel fatto di essere sicuri e convinti di trattare un tema che appartiene alla normalità. Quello che vive una persona con disabilità è diverso, perché sono le esperienze ad essere diverse, ma l’emotività, quello che ci sta dietro, è una cosa che in realtà conosciamo tutti. Dipende tanto dalla nostra stessa consapevolezza: se non ho una visione di me eroica o pietista è chiaro che non comunicherò una visione di questo tipo».

E quindi, come si fa?

Personalmente consiglierei alle persone di non vedere le persone disabili come eroi. Credo le persone dovrebbero smettere di pensare che noi siamo lì a supplicare l'aiuto di chiunque; soprattutto in Italia c’è questa idea della gente con disabilità che è un poverino o una poverina da aiutare, mentre bisogna mettersi in testa che se una persona disabile non chiede il nostro aiuto è perché semplicemente non lo vuole.

Un incidente in motorino, poi la carrozzina. Quando hai avuto la consapevolezza che la tua storia poteva avere molto da dire agli altri?

Tardissimo e mi sta arrivando ancora adesso, molto più chiaramente, perché abbiamo raggiunto tante persone. Quando sento dire alla gente che mi riconosce per la mia voce, per quello che facciamo, per il modo di viaggiare capisco che si è appassionata alla mia famiglia, al di là della disabilità. Alle persone che mi seguono non frega niente che io sia in carrozzina o no. Spero.

Credi che i social possano essere un luogo per le persone e non per i personaggi? Partendo dalla tua esperienza.

I social sono rivelatori per la persona, a volte sento dire cose tipo "ah ma quella persona non è come nella vita reale". Forse esistono anche queste persone, però io credo che in realtà se usi i social per mostrarti realmente devi avere a che fare con un specchio continuo di te stesso ed è bruttissimo a volte, ma può creare un percorso che può essere davvero uno strumento di terapia, per me lo è stato.
Per me è stato una metamorfosi stare sulle piattaforme social sia di consapevolezza di me stessa sia di consapevolezza corporea e oserei dire che tanto ha fatto l’immagine che è uno strumento potentissimo e ancora molto sottovalutato.

Pensi ci sia in atto una rivoluzione lenta, ma reale nell'ottica di un mondo più inclusivo?

Credo che la rivoluzione stia accadendo. Vedo molte aziende che iniziano ad approcciarsi al mondo della disabilità con principi nobili. Ma vedo anche persone che hanno paura o parlano di strumentalizzazione, io credo non si tratti di questo. E poi, anche se fosse? Intanto ci vengono incontro. La rivoluzione c’è, si muove lenta e ha delle cadute libere, perché ha tante voci spesso poco coordinate.

Sui tuoi social gli elementi più ricorrenti sono Andrea e i viaggi: puoi dire che ti servono a “tenere il tuo mondo insieme”?

Sì, decisamente. Spesso mi viene chiesto: «Non puoi vivere una vita felice a casa?», come se fosse un capriccio per me viaggiare. Dopo l'incidente ammetto che la casa ha iniziato a starmi stretta, ho sempre bisogno di nuovi stimoli, non so se questa sia la cosa più sana al mondo, ma è la mia vita e ho avuto la fortuna di farne un lavoro.

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Andrea ti ha riscoperta bella e amabile quando tu stessa non ti ci sentivi: siete la prova che “nessuno si salva da solo” (almeno non completamente), detto altrimenti: esiste l’amore per gli altri senza la condizione necessaria dell’amore per sé stessi?

Io credo che possa esistere. É vero che se non ami te non puoi amare gli altri, c’è una parte di verità in questo, ma è anche vero che tutti noi impariamo ad amare. All'amore veniamo educati. Io, ad esempio, ho imparato ad amare attraverso gli occhi degli altri.

Secondo te perché l’idea che una persona disabile abbia una sessualità attiva è così destabilizzante per le persone, considerando che hai ricevuto spesso molte domande su questo tema?

Molte? Tantissime. Credo che ci sia curiosità. Ho aiutato molte persone ad approcciare con altre che avevano disabilità. Il problema si poneva perché non volevano creare situazioni di imbarazzo con le loro domande tipo: "Posso toccarti le gambe mentre facciamo l’amore?" e hanno fatto queste domande a me.

Come ti sei sentita a rispondere a domande così intime?

Sono stata molto felice di rispondere, perché ci sono persone innamorate di persone con disabilità con timori a cui qualcuno deve dare risposta, non le vedo come una questione morbosa. Probabilmente, poi, le persone disabili si portano dietro questa allure di asessualità, perché la questione si fa più delicata, certamente.

Le parole sono importanti, non sono solo le scatole dentro le quali infiliamo le cose, ma sono le cose stesse: dimmene tre che sono importanti per te.

Gentilezza, rispetto e semplicità. Io credo siano tre parole sulle quali bisognerebbe ritornare a fondare un po’ tutto.