In queste ore è impossibile non fermarsi a pensare alla ragazza di Palermo, la diciannovenne che ha scelto di farsi avanti e denunciare i 7 ragazzi tra i 17 e i 22 anni che l'hanno violentata a turno al Foro Italico lo scorso luglio. I messaggi raccapriccianti, i nomi di pubblico dominio, i restroscena sull'indifferenza degli aguzzini. Da quando il caso è esploso e sono iniziati gli arresti, non solo lei ha rischiato la vita, dato che, come emerge dalle indagini, alcuni dei ragazzi coinvolti si stavano organizzando per punirla e costringerla al silenzio, ma ora le foto delle telecamere di sorveglianza che la mostrano negli attimi prima della violenza sono ovunque, così come le chat agghiaccianti e le intercettazioni che ripercorrono i fatti di quella notte. Fatti che, chissà, forse si sarebbero potuti evitare: «Chiedevo aiuto», ha raccontato «nessuno è intervenuto». Ci sono cose che si potevano fare e non sono state fatte, situazioni che dovremmo tutti imparare a non ignorare mai. Le dobbiamo qualcosa di meglio.

«Dopo avermi fatto ubriacare e fumare mi hanno presa di peso e portata al Foro Italico», ha raccontato la ragazza. «Era tutta ubriaca», scrive uno dei ragazzi arrestati, Angelo Flores, via WhatsApp, «l'amica sua l'ha lasciata sola, voleva farsi a tutti. Alla fine gli abbiamo fatto passare il capriccio». Lei ha detto di aver provato ad attirare l'attenzione dei passanti, «ma nessuno mi stava guardando e nessuno mi ha sentita». Eppure si trattava di una ragazza sola, ubriaca e trascinata da sette ragazzi. Così hanno abusato di lei a turno, l'hanno picchiata, derisa e poi abbandonata per strada. Il gip ha sottolineato che gli indagati sono stati «capaci tutti insieme di esprimere un comportamento altamente antisociale e devastante, nelle conseguenze fisiche e psichiche arrecate alla vittima». Sembra tutto orribilmente chiaro: i ragazzi sapevano quello che stavano facendo, lei urlava, chiedeva di fermarsi, loro agivano come se di fronte avessero un oggetto privo di volontà su cui esercitare il loro potere. Le chat e le intercettazioni ormai sono state diffuse e riprese ovunque sui social.

Ma era necessario? Davvero solo pubblicando foto e conversazioni così profondamente triggeranti e intrise di violenza possiamo garantire che la giustizia faccia il suo corso? Incastonando online un'esperienza che la persona coinvolta sarà costretta così a ripercorrere per sempre? È arrivato il momento di prendere atto che la responsabilità è anche nostra. Che a lei, e a ogni donna e ragazza, dobbiamo la capacità di fermarci ad ascoltare un grido di aiuto, di non sottovalutare uno sguardo terrorizzato o anche solo una situazione poco chiara. La pazienza e il coraggio di chiedere «È tutto ok?» e di dire «No, è da lei che voglio sentirlo dire». A loro e a noi dobbiamo il rispetto dopo le denunce che passa anche e soprattutto attraverso il modo in cui raccontiamo quello che è successo, le parole, le immagini che usiamo e lo scopo (solo qualche click in più?) che ci poniamo. Finché non inizieremo a farlo, finché la società non si farà carico di educare al consenso e finché le dinamiche di potere che stanno alla base della violenza di genere non saranno interiorizzate - fino a quel momento nessuno potrà davvero assolversi.