Si allenano ogni giorno, si impegnano, perdono, vincono, ci dedicano la vita. Eppure le atlete italiane non sono considerate professioniste e dunque non hanno tutele. No, nemmeno quella banale di un contratto di lavoro a tutti gli effetti che garantisca loro - tanto per fare un esempio - la maternità. Sembra impossibile, ma è tutto vero: quando un'atleta rimane incinta in Italia il rapporto di lavoro si interrompe e così anche lo stipendio. È successo da poco a Lara Lugli, pallavolista del Volley Pordenone (ora Maniago Pordenone) che, dopo essere rimasta incinta (e aver poi subito un aborto spontaneo), non solo è rimasta senza lavoro ma si è vista presentare una richiesta di danni dalla federazione per "non aver reso chiara la propria intenzione di avere figli". Cose dell'altro mondo, direte voi e infatti le sue college si stanno facendo sentire, protestando per chiedere maggiori diritti con i palloni sotto le maglie.

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Vista la situazione, non stupisce che Luisa Rizzitelli, presidente e fondatrice dell’associazione Assist, abbia dichiarato a Il Post che nel mondo dello sport "si consuma una delle più grandi discriminazioni di genere". Solo i professionisti hanno un rapporto di lavoro riconosciuto dalla legge, con conseguenti tutele assicurative e contributive. La scelta di chi possa essere considerato tale, però, è lasciata alle federazioni che al momento hanno stabilito che il professionismo può essere riconosciuto solo in quattro discipline maschili: il calcio fino alla Lega Pro, il golf, il basket (solo in Serie A) e il ciclismo su strada. Tutti gli altri atleti e tutte (tutte!) le atlete sono dilettanti. Il caso Lugli ha riaperto il discorso dopo che la pallavolista si è sfogata su Facebook in occasione della Giornata della Donna. “Se una donna rimane incinta non può conferire un danno a nessuno e non deve risarcire nessuno per questo" scrive l'atleta giustamente. Il contratto (ma sarebbe meglio chiamarlo "scrittura privata") di Lugli prevedeva una clausola anti-maternità per cui, quando la pallavolista ha detto di essere incinta, il rapporto di lavoro si è interrotto. L'ulteriore problema, però, è nato quando, dopo la richiesta dell'atleta di ricevere il pagamento del mese di febbraio in cui aveva lavorato, la società le ha chiesto di pagare i danni per aver reso chiare le sue intenzioni di avere figli. Oltre al danno la beffa, se non fosse tutto vero.

Dopo il suo post è nata un'ondata di rabbia e solidarietà: prima della finale di Coppa Italia A2 femminile Mondovì contro Macerata le capitane delle due squadre si sono messe un pallone sotto la maglia: un pancione per mandare un messaggio ben chiaro e sostenere Lara Lugli. Il gesto è stato poi replicato in molti altri palazzetti dello sport anche da parte di colleghi maschi. "Lo sappiamo tutti che alle atlete incinte viene tolto ogni diritto ed è ora di porvi rimedio" è l'appello dell'associazione Assist e di Aip, l'associazione italiana pallavolisti, mentre l'Associazione Nazionale Atlete ha annunciato che scriverà al presidente del Consiglio Mario Draghi e al presidente del Coni, Giovanni Malagó, per chiedere di risolvere questa situazione. Licenziare una donna perché incinta ci sembra ormai una pratica retrograda e impensabile, eppure per le atlete è una realtà. Non possiamo più accettarlo.