Siete sicuri di sapere cosa sia davvero sostenibile e cosa no? Se state pensando che avete perso tutte le speranze verso le etichette che seguite, avete la nostra piena comprensione. D'altronde, se da una parte negli ultimi anni «sostenibilità» è diventata la parola d'ordine della moda, dall'altra la crescente attenzione dei consumer ha portato le label a reinventare la propria immagine per rispondere a coloro che chiedono a gran voce di essere agevolati a diventare consumatori etici, costi quel che costi. Così sono nati talmente tanti casi di greenwashing su tutti i livelli che viene da chiedersi se i vestiti potranno mai essere prodotti attraverso processi creativi realmente etici.

Per rispondere, un articolo di The Cut ha scelto come caso studio Slow Factory, una scuola di Brooklyn, NY, che si propone di insegnare tutto quello che c'è da sapere alla nuova generazione di designer. Perché se l'impegno ambientale è il regno della Generazione Z, i giovani che aspirano a lavorare nel settore della moda sono pienamente consapevoli dell'urgenza di nuove misure planet-care nonché di corsi di specializzazione a tema green – mentre i Millenial sognavano di diventare come Miranda Priestly, i nuovi arrivati dimostrano di essere piuttosto un incrocio tra Andrea de Il Diavolo veste Prada e Greta Thunberg, liberandosi dall'ancora ai sistemi tradizionali in cui alcuni importanti temi, come la sostenibilità, sono esclusi.

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Il punto è che, per applicare un processo creativo 100% etico e impatto zero, è necessario che gli studenti imparino non solo l'abc del riciclaggio e dell'up-cycling, ma anche il contesto storico che ha contribuito a creare all'attuale scenario. Vedi il colonialismo, imperialismo o il razzismo che hanno portato allo sfruttamento delle risorse naturali e alla totale infrazione dei diritti umani: tutti fatti storici che non hanno mai favorito la sostenibilità (e che continuano a non farlo) e che nella maggior parte delle scuole non vengono raccontate da un punto di vista critico. Ma queste stesse cose stanno diversamente per oltre 28mila studenti e studentesse che hanno potuto accedere gratuitamente ai corsi di Slow Factory.

Come ha raccontato a The Cut Celine Semaan, Leadership Collective della scuola e organizzazione no-profit newyorkese, gli aspiranti designer sono istruiti sui principi tecnici che riguardano la composizione dei tessuti e l'innovazione dei materiali, ma anche sui relativi aspetti culturali. In linea con tale metodo totalmente open-minded che trascende il pensiero occidentale per promuove una visione oggettiva e completa al 100%, gli studenti vengono accompagnati sul luogo del disastro, ovvero nelle discariche dell'America Meridionale. Qui l'intento di incoraggiarli a pensare «alla fine» sin dall'inizio del progetto di un capo e che lo ritroveranno lì o meno a seconda di come agiscono.

Un altro aspetto di cui i designer che seguono le lezioni a Brooklyn sono altamente consapevoli riguarda il consistente divario tra il costo di un capo green e uno che non lo è: il risultato è che le loro collezioni risultano interamente realizzate con sorprendenti materiali di scarto riutilizzati in modo creativo. A tutto questo si aggiungono seminari speciali che danno un valore aggiunto al percorso di studi come quello di Anne Higonnet che, anche se viviamo in un mondo in cui tutti comprano di continuo, comprano crop top di Shein sorpattutto, ma non ne conservano mai nessuno, ha scelto di puntare tutto sul potenziale valoriale di un vestito.

Higonnet ha chiesto ai suoi studenti Slow Factory di scrivere un essay in cui ripercorrono i ricordi che li legano ai vestiti, ai cappotti o alle T-shirt che hanno segnato le loro vite. Sperando di poterli indirizzare a guardare ai propri lavori come capi con cui scrivere altre storie, in cui climate justice e social equity sono protagoniste. Se non è questa una e moltissime giovani promesse per il pianeta.