Per produrre un paio di jeans viene rilasciata una quantità di gas serra pari a quella emessa da una macchina che percorre circa 130 km. Sì, per parlare di sostenibilità e moda green servono dati, ne servono tanti e servono esempi per capire con chiarezza quali sono i rapporti di incidenza di un business così ingombrante come quello della moda dal punto di vista dello sfruttamento delle risorse del nostro pianeta. Sono passati quasi due anni da quando uno degli accordi più importanti tra i big player dell’industria dell’abbigliamento, il Fashion Pact, ha intrapreso un profondo e radicale cambio di gestione, preso consapevolezza, aprendosi a un tipo di innovazione in tutela del nostro ecosistema. Se tra il dire il fare c’è di mezzo un magnifico mare, oggi proviamo a fare il punto su come stanno andando le cose da quelle parti. Se alle parole e ai buoni propositi sono davvero seguite azioni vere, tangibili, e scelte fattive nell’interesse di un quadro più grande del semplice profitto aziendale.

I firmatari di The Fashion Pact, accordo nato dall’iniziativa del Gruppo Kering, sono più di 70 per un totale di oltre 200 brand che spaziano dal settore moda e tessile, al ready-to-wear, sport, lifestyle e lusso. I 14 paesi presenti rappresentano però solo un terzo dell’intero sistema moda su scala globale., mentre sono tre gli obiettivi comuni che li vede coinvolti:

Arrestare il riscaldamento globale

Il ripristino della biodiversità

Proteggere gli oceani

Imprese titaniche, ovvio, ma non impossibili. C’è da dire che la presa di coscienza collettiva ha dato il via ai lavori. Senza di quella è del tutto inutile pensare di cambiare lo status quo della salute del nostro povero mondo in modalità singola e individuale.

Fashion Pact, cosa è successo dopo un anno

L’inizio pare abbastanza confortante. Il primo report messo a disposizione della piattaforma condivide dati di aumento tra le aziende moda nell'impiego di energia rinnovabile e una certa diminuzione nell’utilizzo della plastica. Però, con il passare dei mesi, sono anche emerse criticità che riguardano l’opacità e la resistenza passiva di molte aziende a rendere trasparenti i dati caldi della transizione green all'interno dei propri processi produttivi.

Le aziende devono imparare a giocare pulito e a rendersi parte attiva di un disegno più grande. Senza trasparenza e condivisione tra le parti non ci si evolve. Ad oggi più dell'80% dei brand di moda non ha reso pubblico il suo impegno nella salvaguardia del pianeta.

The Fashion Pact: l'impegno a rallentare il cambiamento climatico

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Secondo il Paris Climate Agreement se il riscaldamento globale è circoscritto a un incremento di 1,5 C°, le Nazioni Unite dicono che le emissioni di anidride carbonica del 2010, per il 2030 dovranno ridursi almeno del 45%. Fashion Pact ha creato dunque delle alleanze con enti preposti al monitoraggio e al sostegno nella transizione green delle aziende per avere una certa incidenza in questo rallentamento. Tra enti coinvolti figurano SYSTEMIQ e 2050, realtà dinamiche coinvolte in progetti di energia rinnovabile, materiali alternativi a basso impatto ambientale e circolarità dei processi produttivi.

I buoni propositi

  • Entro il 2025 il 25% dell'approvigionamento delle materie prime deve essere a basso impatto ambientale
  • Entro il 2030 l'utilizzo di energie rinnovabili dovrà essere pari al 100%

The Fashion Pact, come attivarsi nella tutela della Biodiversità

Il report stilato da The World Wildlife Foundation ‘Living Planet Report’ del 2020 mostra una diminuzione di animali mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci pari al 68% in un arco di tempo tra il 1970 e il 2016. Così come, altro dato inquietante, il 75% della superficie disgelata è tra le principali cause di alterazione degli ecosistemi e della riduzione della biodiversità. Cosa possono fare le aziende moda in proposito? Proteggere le foreste! Sono loro la casa dell’80% della biodiversità terrestre. Non gestire affatto questo aspetto significherebbe dire addio alla Natura.

I buoni propositi

  • Entro il 2025 raggiungere la deforestazione zero con programmi di gestione sostenibile da parte delle aziende

Le aziende firmatarie di The Fashion Pact si stanno impegnando a inserire all’interno della filiera produttiva progetti rigenerativi e ristorativi: di specie animali e piantumazione di alberi. Se l’agricoltura è una delle pratiche più distruttive, tra il 1980 e il 2000, 100 milioni di ettari di foreste tropicali sono stati eliminati per scopi agro alimentari, l’industria della moda è tra gli acquirenti più grossi delle fibre di legno con cui ricavare un tessuto molto utilizzato nell’abbigliamento come la viscosa. Ogni anno più di 150 milioni di alberi sono processati per ricavare fibra di cellulosa con cui ottenere tessuti come il Modal e il Lyocell.

The Fashion Pact, darsi da fare con la salvaguardia degli Oceani

I presupposti non sono buonissimi. Ad oggi le prospettive di salute degli Oceani non lasciano ben sperare. Le barriere coralline nel 2050 potrebbero non esistere più, la presenza di plastica supererebbe quella dei pesci mentre il 90% degli animali di grossa taglia estinguersi per sempre. Non benissimo insomma. La plastica in mare ne aumenta l'acidificazione causando così il declino delle biodiversità. Come vedi tutto è collegato. Ogni anno 8 milioni di tonnellate di plastica vergono riversate in mare. Ma non si tratta solo di imballi e packaging, sono le lavorazioni dei tessuti come i lavaggi a causare il 35% dello sversamento principale di microplastiche. Alcune ottime idee a riguardo sono già in circolo, cosa ci vuole a finanziarle su larga scala?

I buoni propositi

  • Entro il 2025 eliminare le plastiche non riutilizzabili dalle dinamiche di shopping online come i sacchetti protettivi di trasporto, gli appendiabiti (o stampelle) e le etichette
  • Entro il 2030 metà di tutti gli imballaggi di plastica dovranno essere realizzati al 100% con materiale riciclato.

Noi facciamo il tifo e chiediamo alle aziende di prendere a cuore seriamente la questione green. Come consumatori ci impegnano a non essere passivi.

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