Sembrava che gli angeli di Victoria's Secret avessero perso le ali per sempre, avevamo assistito alla loro caduta senza grande stupore quando nel 2019 le tradizionali sfilate erano state abolite a seguito di un callout sulla rappresentazione femminile che il brand di lingerie metteva in atto nei suoi show. Il lato oscuro di Victoria's Secret si era a lungo allargato come una macchia d'inchiostro: standard di bellezza impossibili e poco sani, bullismo verso le modelle, legami dell'ex amministratore delegato Les Wexner con Jeffrey Epstein, condannato per reati sessuali, razzismo, transfobia, praticamente un prontuario di quello che un brand nel 2023 non dovrebbe rappresentare. Quando lo scandalo è scoppiato sembrava che il capitolo fosse chiuso. Per un po', in effetti, gli angeli non si sono fatti vedere, ma ora sono tornati: con il documentario Amazon Prime #TheTour23, Victoria's Secret sembra chiedere il nostro perdono.

instagramView full post on Instagram

C'è una certa ironia della sorte nel constatare come, poco più di un anno fa, un altro documentario (una docuserie Hulu per l'esattezza: Victoria's Secret: Angels and Demons) mostrava nei dettagli tutti i motivi per cui il brand di lingerie simbolo della sexiness nei primi anni 2000 meritava di essere cancellato. Veniva descritto un ambiente lavorativo maschilista e tossico e le moltissime polemiche che gli ultimi anni avevano portato alla chiusura di centinaia di punti vendita. Mentre il mondo cambiava, nel 2019 Ed Razek, chief marketing officer di Victoria's Secret annunciava che nello show non ci sarebbe mai stato spazio per modelle curvy o trans, dato che la loro presenza avrebbe rovinato la fantasia sessuale (maschile?) che lo spettacolo doveva, a suo dire, veicolare. Ci sono stati casi di appropriazione culturale, come quando Karlie Kloss ha sfilato con un copricapo da nativa americana nel 2012 e diverse modelle hanno parlato di disturbi alimentari, molestie e pressioni. «Quando ero al liceo lo show era una cosa importante», racconta la stilista Michaela Stark, «Ma c'era anche quella cultura che lo circondava, quella di non voler mangiare dopo averlo visto».

Così è arrivata la cancellazione, non come gogna, ma piuttosto come presa di coscienza collettiva che la donna rappresentata dal brand, quella che viveva la propria sessualità come realizzazione del desiderio maschile, non era più un modello aspirazionale, anzi. Ma si può risorgere dalle proprie ceneri? Questa sembra essere la domanda cruciale da porsi guardando la nuova sfilata digitale di Victoria's Secret. Per rilanciarsi il marchio ha creato il VS Collective, coinvolgendo come testimonial personalità come la calciatrice Megan Rapinoe, la modella trans Valentina Sampaio, la modella plus size Paloma Elsesser. L'idea è quella di dare visibilità alle donne e lasciare che siano le loro voci e la loro creatività a modellare il marchio.

Così, #TheTour23 si presenta come un collage di diversi luoghi del mondo (Londra, Tokuyo. Colombia), modelle fedeli al brand (Adriana Lima, Naomi Campbell, Gigi Hadid e Emily Ratajkowski) e new entry che comprendono artiste, designer, filmaker, ballerine, modelle e molto altro. La presentazione della nuova collezione, tra bustini in raso, babydoll e pigiami, si alterna a dei cortometraggi che presentano 20 donne creative. Si va da Piscis Canizales, ballerina e attivista colombiana diventata virale per aver ballato di fronte alla polizia pesantemente armata durante una protesta nel 2021, alla cantante giapponese KOM_I, fino alle stiliste Bubu Ogisi di Lagos, che fonde l'ispirazione delle mitologie Yoruba e Igbo e Jen-Fang Shueh di Tokyo che esplora l'esperienza corporea del raggiungimento della mezza età.

Le buone intenzioni sono palesi (e, del resto, strettamente funzionali alla rinascita), ma il pastiche non convince del tutto. «Non è colpa dei talentuosi artisti riuniti da Victoria's Secret, ma #The Tour sembra sconnesso», commenta la CNN, «offre solo spezzoni veloci, passerelle sommesse e una narrazione che non rimane su nessun argomento abbastanza a lungo da penetrarne la superficie». Forse il punto è che non si può costruire l'inclusività a tavolino, specie di fronte alle nuove generazioni, preparate e attente, che ai brand chiedono etica, rispetto e trasparenza, pena il dimenticatoio. Per la fiducia, quella vera, non basta mai la facciata, servono tempo e azioni concrete.