«Nessuna più», nessuna più debba morire così. Questo si legge sui cartelli delle proteste che da alcune settimane hanno ricominciato a susseguirsi in Polonia, ma anche in altri Paesi. Il motivo è lo stesso dello scorso inverno quando il governo polacco ha approvato una nuova norma stabilita sulla base di una sentenza della Corte costituzionale. Il risultato è un divieto quasi totale di abortire legalmente: è possibile solo in caso di stupro, incesto o in caso di pericolo di vita della madre. Ora, però, c'è una prima vittima di questo sistema: una donna è morta di setticemia, dopo che i medici hanno preferito aspettare, piuttosto che interrompere la gravidanza ormai compromessa. «Non una donna di più perda la vita a causa di questa legge», ha sentenziato il Parlamento Europeo condannando la Polonia e chiedendo espressamente al Paese di «garantire pienamente l’accesso a servizi di aborto sicuri, legali e gratuiti». Eppure l'idea che l'aborto legale salvi delle vite non è ancora entrata a pieno nella nostra cultura.

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Izabela (questo il nome con cui è stata identificata) era una donna polacca di 30 anni. Lo scorso settembre era stata portata in ospedale nella cittadina di Pszczyna dopo una rottura prematura della placenta alla ventiduesima settimana di gravidanza. Secondo quanto raccontato online dalla sua avvocata, i medici avevano confermato la presenza di rilevati gravi difetti fetali, ma avevano deciso di «astenersi dallo svuotare l'utero fino alla morte del feto». Izabela, dopo alcune ore, aveva inviato un messaggio ai famigliari dicendo che la sua febbre stava aumentando e che era preoccupata di andare in shock settico, ma anche questo non era bastato. I medici non sono intervenuti per paura delle conseguenze legali, causando la morte della donna. «Non conoscono la legge alla perfezione, sanno solo che c'è il divieto di aborto e hanno paura di agire», spiegano gli attivisti, «aspettano fino all'ultimo momento per usare la motivazione della 'minaccia alla vita' poiché temono che se agiscono troppo presto dovranno affrontare accuse penali». Questo caso ricorda quello italiano di Valentina Miluzzo, 32enne incinta di due gemelli, morta all’ospedale Cannizzaro di Catania dopo che i medici obiettori di coscienza si sono rifiutati di intervenire e non si sono accorti che la ragazza stava morendo di setticemia.

Il punto è che, nonostante ci siano studi che da anni dimostrano che rendere illegale l'aborto non diminuisce i casi di IVG (anzi è vero il contrario: in Italia, dall’introduzione della 194 il numero di Ivg è diminuito del 67,4%, secondo il Ministero della Salute), c'è ancora chi pensa che proibire la libertà di scelta sia una soluzione per favorire la maternità. Secondo l'associazione Abortion Without Borders in Polonia gli aborti clandestini sono almeno 34mila (e si tratta solo di una stima basata su circa 10 milioni di donne) con altissimi rischi per la vita, come abbiamo visto nel caso di Izabela. Tutto questo è supportato da una cultura che demonizza la libertà delle donne di decidere del loro corpo: pubblicità, libri, film, telefilm. «L’aborto è un tabù e lo è anche in televisione», ha spiegato recentemente a Il Post la sceneggiatrice Gloria Malatesta, «può essere accettato solo come qualcosa che ti capita, a causa di un incidente o per una caduta dalle scale: un classico. E se il personaggio decide di abortire, all’ultimo minuto il richiamo della maternità e della salvezza del feto è più forte e prevale». Dove sono, invece le storie di Izabela e Valentina, le storie delle donne che abortiscono clandestinamente, le storie di chi perde la vita a causa di leggi antiabortiste? L'alternativa all'aborto legale è mettere in serio pericolo la vita delle donne, questa è l'unica narrazione veritiera.