Se non avessi la possibilità di provare quello che sto raccontando, non avrei neppure iniziato a scriverlo. Ho addirittura delle foto, ho conservato gli scontrini di quella serata esattamente come avrebbe fatto una tredicenne o una psicopatica.
Una tredicenne, meglio.

Andrew Van Rooyen, nome e cognome. Non mento, mica.

Si era presentato solo col nome, ovviamente. Appoggiati sui tavolini di quel pub modaiolo di Shoreditch, probabilmente mi ero avvicinata da lui io da sola, incoraggiata dal numero esponenziale di pinte che mi calavo cercando di trovare buoni motivi per il fatto che stessi lasciando Londra per Milano. Era l'ultima sera, l'ultima notte prima di prendere un aereo alle sei del mattino e tornare in Italia per crearmi un futuro che non c'è mai stato. L'ultima sera proprio. E non è mica la cosa più strana della nostra storia.

Prima di tutto Andrew è bello come un modello di American Apparel. Sudafricano biondo e con enormi occhi blu, che mica è colpa sua se i bisnonni erano olandesi. Andrew è uno di quelli che ci siamo sempre limitate a guardare ridacchiando con le amiche, perché – dai, che gli specchi li abbiamo in casa - è sempre stato fuori dalla nostra portata. Quella sera era da solo, appena uscito da lezione con lo zainetto monospalla da ingegnere che solo a uno come lui puoi perdonare e beveva una birra. Per cui, ora che ci penso meglio, dovevo esser stata io quella abbastanza sbronza da aver attaccato bottone. E dovevo esser stata io a comprargli un'altra pinta, che tanto quei pounds dovevo finirli.

La lingua in bocca no, sono sicura, me l'ha messa lui dopo due ore passate a parlare fittissimo di Morrissey, dei duo elettronici inglesi e di quanto lui desiderasse vedere le isole del mediterraneo. Dio, se era bello. Bello tanto da perdonargli il fatto di non capire che Sicilia, Sardegna e Corsica non fossero la stessa cosa. Non importa, Andrew, tranquillo. Se mi guardi ancora attraverso quel ciuffo color oro, posso aggiungerci anche Cipro nel mucchio.

Quell'aereo alle sei del mattino l'ho maledetto per un sacco di motivi diversi. Mi ha portato via da Londra, dove sopravvivevo in modo intensissimo e mi ha lasciato a Milano, nel 2009, in mezzo alla gente che sapeva che stava arrivando la botta di crisi che avrebbe spezzato i sogni di carriera del quaranta percento delle mie amiche, lasciandole con troppo tempo libero da passare a cercare di rifare orribili lavoretti visti su Pinterest. Quell'aereo l'ho maledetto perché mi ha portato via dalle braccia afrikaans di Andrew, senza che ci scambiassimo il numero o che ci promettessimo di sposarci e fare un sacco di splendidi bambini biondi e ignoranti in geografia.

A Londra sono tornata un anno e qualche mese dopo, per vedere l'effetto che mi faceva dopo che Milano mi aveva inglobato come avrebbe fatto una vecchia zia con due tette enormi nel più classico degli abbracci natalizi non voluti. Mi ospitava un mio amico ad Hackney, che aveva deciso di prendersi cura di me per quei quattro giorni in cui sarei stata nostalgica in una maniera ingestibile. Mi portava in giro e non si lamentava neppure quando dicevo delle cazzate colossali come ''Eh, il caffè come lo fanno a Mile End neppure sulla Spaccanapoli" o "Guarda, se mangiassimo fish and chips più spesso avremo le arterie lubrificatissime''. Continuava a portarmi in giro per farmi esaltare la bontà della birra Bavaria, senza mai prendermi a meritatissimi ceffoni.

Era mercoledì, me lo ricordo benissimo. Mercoledì. Me lo ricordo perché il mio amico lavorava la mattina dopo eppure aveva deciso di uscire comunque con me, prendere un autobus con i reggimano gialli e i sedili unti blu e arrivare fino a Dalton per farmi vedere un concerto di qualche duo elettropop svedese di sedicenni scappati di casa.

Dall'Italia gli avevo portato le sigarette, tre pacchetti miseri che avevo finito per fumare più che altro da sola. Stavo fumando anche in quel momento, appoggiata sul muro di mattoncini, in una serata in cui stranamente non pioveva in quel modo odioso londinese che ti fa credere di esser vestita di spugna per quanto sei zuppa al ritorno a casa.

Stavo fumando, quando lui mi ha visto da lontano e ha detto un po' titubante il mio nome.

Andrew, coi capelli più lunghi. Andrew, con una giacca nuova e lo zainetto da ingegnere dell'anno prima.

Ci siamo abbracciati strettissimo là fuori dal pub, col mio amico che mi guardava dubbioso dall'altra parte del vetro. Abbiamo iniziato esattamente dal punto in cui avevamo smesso un anno prima e mi sono staccata solo per affacciarmi e gridare all'orecchio del mio amico, sopra la musica «Stasera non torno a dormire da te, è un problema? Ci vediamo domani, ti adoro.»

Andrew abitava là, a duecento metri e stava andando a bersi una birra in quel locale, ovviamente, considerato che facevano musica che piaceva ad entrambi e che attirava metà degli hipster d'Albione.

Tutta questa lucidità, tutta questa semplice spiegazione della realtà, però, mi si è rivelata solo dopo un po' di tempo. Sul momento, mentre salivamo in camera sua senza mai staccarci uno dall'altro, era una cosa magica. Era un film di quelli americani di Natale, era stato l'universo intero che aveva girato nella nostra direzione – spostando pianeti e costellazioni – per farci trovare in quel letto fino all'alba.

Provavamo a dircelo nei rispettivi accenti buffi, con qualche problema di comprensione dovuta dalla difficoltà italica di aspirare le acca e da quella sudafricana di ricordarsi che parlare come i Die Antwoord non ti rende particolarmente comprensibile. Quando io non riuscivo a dirgli che non volevo un succo di frutta, perché suonava come se non volessi un ebreo o quando lui continuava a dirmi "Shame" quando era entusiasta di qualcosa, provocando in me una reazione alla Cersei Lannister ante litteram, allora riprendevamo a baciarci perché tutto era così meraviglioso e incredibile.

La mattina a colazione ci tenevamo le mani come due che avrebbero curato il mondo con l'amore e senza dover mai lasciare il letto o rimettersi le mutande. Continuammo così fino al primo pomeriggio, quando lui mi disse che sarebbe dovuto andare a lavoro.

Quel riferimento alla realtà, fuori dalla perfezione del nostro incontro tra emisferi diversi e anime affini, mi mandò completamente fuori di testa. Quello o il fatto che non dormissi da trentasei ore. Telefonai al mio amico per assicurarmi che mi volesse ancora a casa sua, nonostante l'avessi mollato solo al locale la sera prima, e gli chiesi di portarmi alla fermata del bus. Nei romanzi in cui succedono queste cose nessuno va a lavoro e interrompe la magia: lui e lei rimangono a letto per giorni, a lei non viene mai da fare la pipì e lui non ha mai la fiatella del mattino. Quello che era successo era diventato inaspettatamente vero e nella vita vera non c'era spazio nessun incantesimo, ma avevo passato la notte con uno sconosciuto. Uno sconosciuto con gli addominali perfetti e le labbra carnose, ma comunque uno sconosciuto. Nella vita vera non ci si innamora dopo una notte, neppure di uno che è vissuto in modo tangente a te, destinato a ritrovarti dopo un anno e migliaia di kilometri.
« Dammi il tuo numero, ti chiamo appena finisco di lavorare.»

— Andrew, non so se sia la cosa giusta.

— Perché? Che cosa stai dicendo?

— Non lo vedi che è tutto perfetto così? Noi che ci siamo ritrovati un anno dopo, senza che sapessimo nulla uno dell'altra. Non scambiamoci i numeri, ci ritroveremo. Quello che c'è tra di noi ci farà ritrovare ovunque.

No, non ero assolutamente lucida. Troppi dischi degli Smiths, troppi film con Molly Ringwald e troppo tempo senza levarmi le lenti a contatto. Quando salii sul bus ci salutammo con le lacrime agli occhi, ma sereni.
Quando arrivai a casa del mio amico, iniziai a raccontargli tutto. Mi ascoltò paziente e mi disse: siete due imbecilli.

Mi mise di fronte al computer e, tutto serio, fece:

— Ok, ora lo troviamo. Sai come si chiama, dove vive, cosa fa e dove e quando è nato. Per una volta nella tua vita fai la stalker per qualcosa di intelligente e non per vedere se la nuova morosa di un tuo amico è stronza davvero quanto sembra.

Lo trovammo, alcune ore dopo e dopo aver richiesto l'amicizia a baffuti signori di Cape Town che mi ricordavano lui, resa cieca e scema dalla cotta. Gli scrissi la più bella delle mail. Gli parlai di amore, di destino, di fato e del fatto che pure il suo pisello non mi dispiacesse. Migliaia di caratteri per descrivere il miracolo di noi due. Una mail che ancora mi commuove.

A cui Andrew non rispose mai.

Usava i social con la stessa frequenza con cui io uso un acceleratore di particelle subatomiche e lesse la mail solo due mesi dopo.

Io dormii abbastanza da riacquistare una percentuale sufficiente di lucidità per ritornare alla mia vita reale e alle zanzare dell'Idroscalo e capire che era stato bellissimo ma magico quanto quella volta che David Copperfield aveva fatto sparire la Statua della Libertà, ma la cosa che stupiva veramente la gente era che fosse fidanzato con Claudia Schiffer.

Con gli anni Andrew ha imparato ad usare meglio le infinite possibilità che l'internet ci regala, cioè passare le ore tra video di gattini e gif di Dawson che piange, e – ogni anno – mi fa gli auguri di buon compleanno postandomi un video di qualche duo elettronico.

Così, annualmente, io mi trovo a rispondere alle mie amiche che cliccano sulla sua faccia in miniatura e mi chiedono "Ma chi è quel tizio bonissimo che t'ha mandato quel video?" e racconto questa storia cambiando sempre il finale, giustificando la nostra separazione con un suo precedente matrimonio, un voto religioso o il fatto che lui mi avesse confessato di avere una particolare predilezione per i libri di Fabio Volo e le Hogan.

Invento un sacco di cretinate perché, di fronte alle foto di quegli occhioni blu io non posso dire, semplicemente, di esser stata un'imbecille.

L'autrice

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Ambra Porcedda, nata nel 1982 a Cagliari, attualmente vive in Sardegna e si occupa di comunicazione. Negli ultimi quindici anni ha scritto di musica per Zero e alcune importanti webzines, collaborato come tour manager per diverse band indipendenti italiane, come speaker e autrice radiofonica. Ha scritto "Imeacht brònach. Una miserevole uscita" (Bébert Edizioni). Il suo ultimi libro, per lo stesso editore, è "Bestiario di vite disgraziate" con illustrazioni di Ciro Fanelli: da leggere se ami le storie tragicomiche, autoironiche, sopra le righe.

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