Ogni grande passione soffre del bisogno di essere raccontata. Che riguardi una storia d’amore, un momento di entusiasmo sentimentale o un’intuizione che ci ha ricordato chi siamo e vogliamo essere veramente. Proprio per questo dopo aver avuto la fortuna di vedere e ascoltare dal vivo Florence Welch, di Florence + the Machine, il 22 giugno in occasione della prima data del festival I-Days per la quale sono stati strappati 30 mila biglietti, si prova la necessità urgente di generare condivisione, termine che Welch utilizza più volte durante i suoi concerti chiedendo spesso di spegnere i telefoni e abbracciarsi, permettendo al suo pubblico, ospite fragile della sua messa, di comprendere l’esperienza a cui sta assistendo. Anche se il loro cuore è spezzato, Florence Welch potrà rimettere i cocci insieme. A piedi nudi e in punta di piedi, muovendosi sul palco con la leggerezza di chi ha attraversato l’inferno, si è scrollato il diavolo dalle spalle (“Shake it Out”) risvegliandosi adesso in una primavera infinita dopo anni in cui ci si è abbandonati all’inverno.

Perché lo spettacolo di Florence Welch, ex studentessa d’arte con voce da mezzo soprano, figlia di un cultore di musica rock e di un’insegnante di Storia rinascimentale, è un incontro reale di devoti che si apre e si chiude come in un cerchio, inizia con “Heaven is Heaven” e si completa con “Rabbit Heart”, in mezzo c’è quasi ogni traccia di Dance Fever, titolo dell’ultimo album di Welch tra i migliori della sua carriera che dà il nome anche al tour che sta portando la cantante britannica in giro per l’America e ora per l’Europa, mentre su TikTok si susseguono i video di lei che si butta tra i fan, la accarezzano, la baciano trattandola come proseliti di una religione laica, provando a raccogliere e conservare quell’amore che Florence diffonde nelle prime file nel momento centrale del concerto, in una parentesi solo sua e sola loro, selezionando con fiuto infallibile i propri adepti tra chi le si mostra più bisognoso di conforto.

Partito ad aprile 2023, il nuovo tour con cui lei e la band indie rock inglese stanno presentando la quinta opera dalla loro fondazione nel 2007 esplora il rapporto di Welch con il movimento, riconnettendola con il pubblico e permettendole di ballare di nuovo, così tanto che durante una delle date si è pure slogata una caviglia. Sul palco campeggia un altare, candele, croci, una miriade di fiori vivi e morti e scampoli di tessuti che si muovono nel vento dell’estate e che in realtà richiamano la Satis House dove viveva Miss Havisham in Grandi Speranze – lei e lo scenografo Es Devlin hanno immaginato quali sembianze potessero avere dei reliquiari sacri affondati sul fondo del mare per cento anni. E così come una cattedrale sommersa da cui riemergono tutti i fantasmi che abitano i testi di Dance Fever e dei nostri ricordi, con tutte le relazioni fallimentari che nemmeno abbiamo avuto e a cui Florence riesce comunque a farci pensare, si assiste a un’ora e mezza di un concerto che è una rappresentazione teatrale, che pesca dall’immaginario di Picnic ad Hanging Rock e dalle fiabe grottesche di Guillermo del Toro, mescola gli incubi ai desideri e alle ossessioni (non è un caso che a vestirla durante il tour sia spesso The Vampire’s Wife, il marchio della stilista, modella e moglie di Nick Cave, Susie Cave, in grado di liberare quella sua strana natura che combina le sembianze da fata dei boschi a quelle di una vampira). Con Florence che pare uscita da un quadro preraffaellita di Dante Gabriele Rossetti, l’abito di Del Core nella data di Milano che seguiva le sue braccia le mani la schiena le gambe fin dentro al pit, dove la sua messa prosegue sempre con “Dream Girl/Prayer Factory” e ancora con la coraggiosa “Big God”.

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elena di vincenzo

L’ultima volta che Florence Welch ha parlato di sé entrando nel merito del proprio passato, sull’anoressia, l’alcool, l’abuso di droghe da cui si è allontanata dopo che la sua vita è deragliata, è stata in una lunga e bellissima intervista per British Vogue. «Lei è proprio come me quando bevevo, divertente, ma vuole distruggere tutto e magari rovinarti la vita», lo aveva detto riferendosi a sua nipote, entrata nel locale di suo cugino dove Olivia Marks la stava intervistando. È lo stesso senso dell'umorismo delicatamente autoironico che attraversa Dance Fever, con cui sono finalmente tornati gli inni da stadio che hanno definito la sua carriera iniziale con Lungs nel 2009, anche se non ho mai visto nessuno piangere così tanto durante un concerto come ho visto fare per lei. Dopo tutti i festival, i sei Grammy per i quali è stata nominata, le esibizioni con Drake e i Rolling Stones, Dance Fever ha offerto nuovamente al suo pubblico di uomini e di tantissime donne qualcosa da gridare dal basso della terra da cui a ogni salto che incita a fare si alza la sabbia, in alto in direzione del palco, invocando l’emancipazione dei corpi e di quello che con loro vogliamo farci, nonostante i desideri degli altri ci si appiccichino addosso come fossero nostri («I’m no mother, I’m no bride, I’m King»). Inni che sono stati prima esperienze, vissute da una Persefone fuggita definitivamente dal sottoterra dell’Ade, arrivata a lambire le nostre terribili storie, sbiadendole, celebrandole, e poi concedendoci un momento per liberarcene trasformandole in qualcosa di diverso.