Come la Niña climatica conosciuta quale il raffreddamento delle temperature delle acque superficiali degli oceani che influisce su tutto il pianeta, anche quella a cui ha dato vita Carola Moccia nel 2016 sembra avere a che fare con lo spostamento dei venti e la forza che hanno le maree. Originaria di Napoli di cui riprende ed esalta l’anima e la lingua, più che il sound, ha unito le armonie e i fraseggi antichi con i beat più contemporanei per creare La Niña, divenendo una delle esperienze musicali più interessanti nel panorama italiano. Dopo un passato nel duo Yombe con Alfredo Mataluno, ancora oggi al suo fianco come l’art director Kwsk Ninja, le prime canzoni in inglese e il successo dei singoli come "Croce" che l’ha condotta da Sony, "Nunn’ o voglio sape’", "Na cosa sola" e il feat con Gemitaiz "Lassame Sta’", il 24 marzo 2023 ha pubblicato il disco d’esordio, Vanitas, con dieci canzoni che raccontano sogni e dolori generate dalle profondità dei suoi ricordi e dall’abisso che precede l’elaborazione del trauma. «Sono contentissima dei feedback, anche di quelli dal mondo della Napoli dei teatri dove c’è un background molto più tradizionale. Diciamo che mi posso considerare soddisfatta, anche se sono già al lavoro su altre cose». Sta già pensando a nuovi singoli, nuove collaborazioni, canzoni che poi usciranno in estate e i brani della serie che vedremo su Mediaset a settembre, La voce che hai dentro. Nel frattempo La Niña che inizialmente era "La Nenna", ragazza in dialetto napoletano, non ha intenzione di fermarsi. Scegliendo di muoversi lentamente, ma con tutta la potenza necessaria come fanno le correnti.

Nel 2021 usciva Eden, il primo ep, con il quale raccontavi un mondo e un modo per affrontare un trauma. Cosa è cambiato con Vanitas?

«Tantissime cose. Ho fatto una ricerca che è andata nella direzione di Eden da un punto di vista di attitude ma ho fatto in modo che quegli ingredienti fossero più estremizzati. Là veniva tutto solo accennato, qui c’è una presa di coscienza e una presa di coraggio rispetto a un certo tipo di scrittura che prende tanto dal passato ma anche dal suono globale contemporaneo».

Immagino ti riferisca al lavoro con gli strumenti antichi che avete processato.

«Li abbiamo inseriti nel disco facendo qualcosa di futurista. Volevo un sound che fosse coerente con la mia fascinazione per il passato ma che non rimanesse solo una cosa vecchia. A me non piace essere derivativa, cioè limitata a omaggiare chi ha composto le opere che campiono. E poi qui anche le tematiche sono più ampie rispetto a Eden. Quello era un lavoro intimista, esploravo in maniera meno capillare l’universo femminile. Ora sono diventata grande».

Tu quanto sei cambiata?

«Molto, ma come non cambiare in pandemia. Io ho esordito con il mio ep alle porte di una crisi globale, ho passato un momento di totale alienazione, con Vanitas ora c’è la voglia di arrivare alla gente. Questo disco ha molto a che fare con la disillusione e la trasformazione dei sogni in realtà. Anche dura a volte. Diciamo vivere un po’ meno nel mondo dell’aspirazione e più in una realtà cruda, non crudele, più cruda. Penso rifletta bene anche il mio percorso umano come donna».

Hai scritto che Vanitas racconta della bambina che eri e della donna che sei. Te la trasformo in domanda.

«Ero una bambina di facili entusiasmi. Molto incapace di prendersi pause, molto irrequieta da un punto di vista relazionale, cercavo la compagnia nelle amicizie, nelle relazioni e mi sorprendevo facilmente. Ero innamorata della vita nonostante un’infanzia non perfetta. Mi ricordo che avevo una grandissima capacità di restare in superficie. La donna che sono oggi è completamente l’opposto, abissale. Sono in un momento della mia esistenza in cui analizzo molto ma vorrei recuperare il meglio che c’era in quella bambina, o almeno la sua capacità di rimanere leggera facendo della profondità qualcosa di più gestibile. Senza vivere solo negli abissi perché non fa neanche bene. Non a caso Vanitas esplora il mondo degli attacchi di panico che è quello che mi è successo e a cui non ero pronta».

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Accennavi alla disillusione, c’è stato un momento specifico in cui hai sentito lo strappo?

«Mi sono strappata più volte. Era un percorso già iniziato con Eden a seguito di un evento traumatico che non ho mai voluto raccontare ma che ha a che fare con la perdita di una persona in circostanze tragiche. Questa cosa è stata difficile da metabolizzare, fai i conti con l’imprevedibilità in senso negativo della vita. Comprendere questa cosa, che la fine della vita faccia parte della vita stessa è stato il primo strappo necessario. Il secondo è stato la pandemia, e non tanto il terrore di massa, sentirsi la morte sul collo, ma il fatto che mi abbia messo in condizione di stare sui social di più, cosa che non avevo mai fatto prima. Ho appena fatto TikTok per dirti».

E ti piace?

«No! Ma lo devo usare per lavoro. Però non è che sia una boomer, mi piacciono di più le persone, ho ancora bisogno di realtà e non ce la faccio a vivere solo lì. Passare più tempo online mi ha fatto vedere la cattiveria della gente, ho iniziato a leggere i commenti che mettevano sotto ai post delle mie colleghe, accanimenti, ero scioccata dalla serietà non richiesta con cui venivano affrontate le cose».

Hai perso fiducia nelle persone?

«Spero nelle nuovissime generazioni ma noto che le persone a cui dare questa fiducia sono una minoranza».

Dicono tu sia la Rosalia italiana. Ti ci senti? Fate due operazioni simili, solo che quello che lei fa con il flamenco tu lo realizzi con l’esperienza futuristica di Meg dei 99 posse.

«Penso sia un paragone sensato, anche se alle persone viene in mente solo Rosalia ma mica è l’unica che fa recupero e ricerca. La scala napoletana lirica ricorda quella del flamenco, è vero. Siamo stati dominati dagli spagnoli, cosa ci vuoi fare. A livello globale stiamo vivendo un momento di riscoperta della tradizione e accade per tutte le culture. Io penso che la nuova Spagna sarà il Brasile per esempio, stanno uscendo dei dischi pazzeschi che fanno ricerca in ambito jazz e che riprendono la musica brasileira».

Abbiamo bisogno di tornare indietro?

«Era nell’aria, abbiamo bisogno di minore prevedibilità. A volte più lontano vai nel tempo più sei in grado di trovare cose nuove».

Entra nello specifico, da cosa o chi nasce la tua fascinazione per il passato?

«Mio padre. C’erano degli ascolti che mi faceva fare nei nostri viaggi infiniti in macchina quando andavamo in vacanza in Calabria. Come la Gatta Cenerentola di De Simone, è una delle cose che a me fa uscire completamente pazza. Ma tu hai idea del coro delle lavandaie? Come è possibile che sia stato registrato nel '65 e non negli anni Novanta. Mio padre mi ha sempre educata a Miles Davis, Joan Coltrane, gli autori blues degli anni Venti, ora insieme alle nuove uscite mi ascolto Gilda Mignonette del ’23 con un giradischi tutto distorto. Nel 2016 ho cominciato a riascoltare la musica napoletana per vari motivi che nemmeno ricordo. E tre anni dopo sarebbe nata La Niña».

Hai sempre pensato di darle vita, la tenevi nascosta da qualche parte aspettando il momento giusto o è nata da un’esigenza?

«Per anni è stata nascosta, però quando avevo 15 anni avevo già capito di avere la tendenza a fare cose da solista. Anche perché non ho mai avuto la fortuna di fare parte di una scena, non ho mai fatto gli incontri fighi della vita, quelli che te la cambiano dall’oggi al domani, o sai le amicizie di sempre con cui fondi una band al liceo e poi svoltate. Io sono cresciuta in un ambiente in cui la musica non era importante. Sono sempre stata molto sola, poi verso i 20 anni sono stata presa in una band, è nato un duo in inglese, e poi sono tornata alla mia esigenza di fare sentire la mia voce».

E poi è arrivata "Croce" che è il primo vero pezzo della Niña. Se dicono esserci sempre un prima e un dopo nella carriera di un artista, sembra che per te lo snodo sia stato quello.

«L'ho scritta dopo quell’evento molto traumatico a cui accennavo. L’ho buttata giù in tre minuti alla chitarra, in napoletano».

Carola è nata due volte? Nel '91 e nel 2019.

«Sapevo che sarebbe cambiato qualcosa nella mia vita. Dopo due mesi ho firmato con Sony».

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Foto di Kawasaki Ningia

È vero che La Niña non esisterebbe senza Napoli?

«Ci sono dei precedenti alla Nina. C’è un suono cittadino di Napoli che ha molto a che fare con la sua anima, piuttosto che con il sound napoletano. Napoli è una città che suona, tutta la sua cultura, la cadenza delle parole è rimasta incastrata nella lingua. Quando le signore si affacciano alla finestra e parlano sembra quasi che cantino. È una lingua viscerale potente. Direi piuttosto che La Niña non potrebbe vivere senza il napoletano, piuttosto che Napoli. Molti miei pezzi non hanno lo stile napoletano, “Notte” ha il giro della “Lacrimosa” di Mozart».

Hai un rapporto conflittuale con la tua città?

«Una relazione contraddittoria. È un po’ una madre che ti abbandona a te stesso pur facendoti sentire tutto l’amore. Napoli si rompe di continuo dopo tre anni, anche perché ciclicamente torna di moda ma di una moda che la spreme. Banalmente, Napoli non ti fa arrivare all’università senza una macchina e se non hai una macchina ti devi arrangiare. Allo stesso tempo, da persona che a Milano per esempio ci passa del tempo, non riuscirei a immaginarmi a vivere in un altro posto che non sia questo disagio che mi fa stare con i piedi per terra. Mi ricorda che le cose vanno sudate, se no non avrei la rabbia che mi serve».

A un certo punto abbiamo bisogno di innamorarci delle crepe?

«Prova a stare 40 anni con una persona con cui non hai mai un’occasione di scontro. Napoli mi serve perché mi fa sentire viva come una storia d’amore in cui qualcosa non ti torna ed è comunque bellissima».

Parlavamo di Meg che è stata forse la prima voce di questa nouvelle vague napoletana che si esprime adesso nelle nuove generazioni, da liberato a Geolier. Ti ci senti dentro, avverti il peso della responsabilità?

«C’è un momento fiorente dal punto di vista musicale ma non parlerei dei rapper. Quelli ci sono sempre stati, dagli anni Novanta, dalla ”famiglia” che era anche molto maschile e maschilista, quella è una scena in cui io non entro. Però parlando proprio dei 99 Posse, è quella scena contraltare a quella testosteronica del mondo rap che si sta ricreando, fatta di artisti giovani e meno giovani che creano cose internazionali, belle e freschissime. Ora sta alla mia generazione tirare avanti questa città. Nessuno lo farà per noi».

A un certo punto hai vissuto a Londra. Ti sei allontanata da Napoli e poi hai sentito la necessità di tornare a casa.

«Ero molto piccola. Ho fatto l’ultimo anno di liceo fuori e poi sono rimasta là innamorata dell’Inghilterra. Ho vissuto anche a Townton ai confini della Cornovaglia, c'erano più mucche che persone. Mi ricordo che mi sentivo al sicuro, c’era il caffè letterario, una cultura riservata stupenda. Io sono una ragazza napoletana atipica, non sono invadente, sono schiva veramente. Avevo trovato la mia pace. Poi però, figlia unica, i miei genitori stavano qui da soli, ti rendi conto che la tua famiglia sta da un’altra parte dell’Italia e che i tuoi amici non vengono a trovarti come avevano promesso. E mi sono detta, ma veramente ho voglia di costruirmi una vita da sola? E se spettasse a me cercare e crearmi quegli stimoli che a Napoli non c’erano?».

Napoli che va di moda ciclicamente. Cosa ne pensi di questo nuovo immaginario napoletano guidato dal cinema e dalla serialità televisiva che trasuda comunque un fortissimo rimando alla tradizione? La sfrutta o la esalta?

«Entrambe le cose. Da parte di alcuni artisti come fu con Dalla ai tempi, che aveva un amore sincero per Napoli con un totale rispetto per la città, non c’è alcun cannibalismo, come Tosca che quell’amore lì mentre canta Murolo glielo vedi negli occhi. Ma poi c’è gente nata e cresciuta in Germania che sente il bisogno di cantare in napoletano. Perché? Noi non possiamo parlare di appropriazione culturale, non siamo una minoranza oppressa di certo, ma io me lo ricordo molto bene com’era stare a Milano ed essere chiamata “Africa” in università. Ho fatto un master per una borsa di studio dopo essermi laureata in Filosofia e venivo sfottuta per il mio accento. Oppure pensa agli speaker radiofonici, non sono mai napoletani. Ma come, Napoli ovunque, estetica napoletana di qua e il nostro accento è ancora troppo marcato? Quando annuso che la città viene usata per trend mi dà un fastidio che non hai idea.

«Napoli è come una madre che ti ama e ti abbandona. Ora sta alla mia generazione tirare avanti questa città. Nessuno lo farà per noi»

Di certo è una città che offre suggestioni che pesano sulle scelte visive e mediatiche di averla come protagonista. C’è tanta letteratura, penso a L’amore molesto di Elena Ferrante in cui si dice che Napoli sia una città che stimola il desiderio erotico.

«Esteticamente ti dà la possibilità di raccontare mille storie. Dal punto di vista della passione come proprio delle generazioni che la vivono. C’è Francesco, un amico brasiliano di seconda generazione napoletana, a lui Napoli ricorda il Brasile. Se chiedi ad alcuni ragazzi che vengono da Calcutta e vivono nei Quartieri ti dicono che gli ricorda l’India. Questo poter essere tante cose, essere aperta, lo senti anche nella musica».

A proposito di musica, quanto nella tua arte è performance? Nel video di "Na cosa sola" ricordavi Arca, nella cover di Vanitas giochi con l’intelligenza artificiale con un riferimento chiaro al tema del memento mori nella pittura. Hai un’esigenza di esprimerti anche a livello estetico?

«Nasce tutto dall’incontro con il mio art director senza il quale il mio universo estetico sarebbe diverso. Lui è anche il mio compagno nella vita, abbiamo passato il nostro tempo a fare i nerd, io sono fissata con l’intellettualizzazione della realtà, lui è laureato in arte ed è un ex professore dell’Accademia di Napoli. Tutto questo è confluito nella complessità della Niña».

Ne parli come un progetto.

«È più un’opera d’arte».

Pensi che questo sia davvero il suo e il tuo momento?

«Io faccio le cose non perché sento che il tempo sia pronto, ma perché lo sono io. Credo che per certi versi il mondo possa essere ponto per me. Penso anche al fatto che se una rete come Mediaset molto poco orientata al mercato internazionale si sia innamorata del mio lavoro, qualcosa vorrà dire. Forse è un’avvisaglia per arrivare a più persone e diventare meno di nicchia. Di progetti in testa ne ho tanti, sono curiosa di quello che potrebbe capitare».

Ascoltando Vanitas ho pensato che alcune canzoni sarebbero perfette nella soundtrack di qualche film di Paolo Sorrentino. Con Toni Servillo che riflette sul fallimento di una carriera da musicista mentre una sposa in lacrime gli sfreccia davanti in piazza Plebiscito col monopattino.

«Per esempio, questo è un grande sogno. Da anni mi auguro che l’Universo gli porti un mio brano alle orecchie».

Paolo, ascoltaci.

«Scrivimi».