Saverio Costanzo prende per mano lo spettatore e lo riporta indietro nel tempo fino ai ruggenti Anni Cinquanta. Succede con Finalmente l'alba, dal 14 dicembre in sala dopo la premiere mondiale alla Mostra del cinema di Venezia 2023. Durante l'incontro stampa con i giornalisti, sprovvisto del cast internazionale per via dello sciopero (come Lily James, Joey Keery di Stranger Things, Willem Dafoe). AL suo fianco l'esordiente Rebecca Antonaci, protagonista di una storia che ha risvolti agrodolci. Innocente e ingenua, si affaccia al mondo del cinema, con scoperte inaspettate, come spiega lo stesso regista e sceneggiatore ai giornalisti.

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Come ha fatto ad immergersi nuovamente in un personaggio femminile?

«Io mi trovo più a mio agio – come per L’amica geniale – con i personaggi femminili, non è una strategia, mi viene naturale e trovo sia più imprevedibile perché da maschio imparo molto ed è un’esperienza elettrizzante. In questo caso nel ‘53 è stata trovata una ragazza morta in spiaggia e da quel momento l’Italia ha perso l’innocenza. A un certo punto erano coinvolti personaggi del mondo della politica e dello spettacolo e quindi i carnefici sono saliti agli onori della cronaca e invece la vittima è sparita. Scrivendo però è stato come se Wilma Montesi mi portasse a cambiare l’epilogo. Il fatto che nel film sopravviva è come se le ridesse in qualche modo dignità della memoria.

Per tornare all’inizio della domanda, i maschi dovrebbero imparare a dialogare con la loro parte femminile. A me è un esercizio che mi piace moltissimo fare».

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Cosa ha visto in Rebecca Antonaci per affidarle il ruolo da protagonista?

«Rebecca è stata per me una fortuna. Io ho girato solo una pubblicità e mi è servita a vedere una cosa, oltre al fatto che non mi interessa fare gli spot. Nel cast c’era questa ragazza, che mentre la troupe lavorava, montava le luci e altro, è rimasta nella stanza del set, nel lettino della camera, seduta e con gli occhi chiusi. Trovava ordine nella confusione ed era una persona curiosa, quindi è stata una delle prime attrici che ho voluto vedere quando poi ho scritto questo film. Ci ho messo un anno a vedere cosa potessi trovare di migliore e chiaramente non l’ho trovato».

I femminicidi aumentano in Italia continuamente. Perché raccontare proprio un caso irrisolto?

«L’epoca ti aiuta a guardare la realtà di oggi senza sociologismi. Gli Anni Cinquanta era per certi versi una società più semplice e la storia di questa ragazza è diventata un archetipo. Oggi l’Italia è un Paese non facile per una ragazza, anzi pericoloso. E per me vedere l’immagine di questa giovane sulla spiaggia a faccia in giù, con le calze abbassate ha dato forma a una memoria. La storia mi è venuta naturale e non mi sono più fermata».

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Perché raccontare anche la Cinecittà del tempo?

«Io ho sempre fatto adattamenti, quindi non so perché mi è venuto in mente. Per L’amica geniale sono rimasta a lungo in quel periodo storico, dalle cose più piccole. Io sono spettatore di cinema e mi sono divertito a ricostruirne l’iconografia, d’altronde Wilma Montesi faceva la comparsa e aveva il desiderio di fare l’attrice. Cinecittà siamo noi. La differenza con uno studio più impersonale sono le nostre facce e il nostro modo di essere».

Il racconto del dietro le quinte di Cinecittà diventa amaro...

«Gli attori sono come eroi moderni, sembrano negativi ma sono solo insicuri. Nell’incontro con un personaggio che è una pagina bianca, scrive la sua storia e toglie i filtri. Anche noi cerchiamo di rappresentarci come non siamo. Il personaggio di Rebecca è come uno specchio. Quello di Joey Keery pensa di non aver talento ma non è vero. Il dovere delle dive dell’epoca, come Lily James, era quello di dover essere sempre divina e ammaliante e credo sia davvero un inferno. Quello di Willem Dafoe è una sorte di Caronte buono. I negativi sono gli squali da salotto, non gli artisti, ma chi ci sta attorno e li sfruttano, i predatori. Non ho l’idea che questo del mondo dello spettacolo sia infernale, anzi».

Il cinema è ancora un’istituzione?

«Sì, resta centrale, fa vedere come funziona il mondo e permette d’imparare per immagini. Certo, esistono le piattaforme, ma il cinema ha conservato quella spinta propulsiva perché ti permette di guardare dentro se stessi ed è uno degli insegnamenti che ti porta più lontano».