A me pare che sia successo qualcosa nella letteratura. E nel cinema. E nelle serie tv. E su Instagram. E nelle scuole. E nelle università. E negli uffici. Pure al ristorante va l’amaro, mi spiega la mia amica Anna Prandoni.

«Ma sai che anche nel cibo è così? E quello che per i sentimenti è la tristezza, per la cucina sono l’acido e l'amaro. Che fosse solo l’acido, bella forza, sarebbe più facile. Per chi assaggia, non per chi cucina, beninteso. Sappiamo tutti che il mondo all’incontrario della cucina gastronomica fa dell’ospite il vero agnello sacrificale, che deve essere messo alle strette, che deve imparare, che deve capire. E che se non apprezza è perché non ha capito, non perché quello che mi stai propinando è un’autentica schifezza. Ma non avete letto tutti i trattati sul gusto? L’acidità e l’amaro sono i due sapori più difficili da accettare, il dolce, leggermente sapido e preferibilmente “grasso” sono preferiti perché ricordano il primo alimento, quello più noto, sicuro, preferito e cioè il latte materno. Non è colpa nostra se amiamo i piatti confortanti, quelli facili, immediati, comprensibili, rassicuranti: ce l’abbiamo scritto nel DNA».

C’è una caterva di gente triste. Triste sopra la media. Triste in sottofondo, di un triste non rimediabile. Chi è che ci ha rovinato la vita?

Pare noi, da soli.

Il coreano-oracolo-recente, il Bauman di questi anni, Byung-Chul Han, ha parlato:

«L’obbligo prestazionale lo costringe (parla di quell’essere moliccio, l’homo contemporaneus n.d.r.) a realizzare sempre piú prestazioni, cosí che egli non giunge mai allo stadio tranquillizzante della gratificazione. Il soggetto vive permanentemente in un sentimento di mancanza e di colpa. Poiché, da ultimo, fa concorrenza a se stesso, egli cerca di superare se stesso, finché non crolla. Subisce un collasso psichico, chiamato burnout».

La società della stanchezza, nottetempo.

Siamo riusciti a inventarci il burn out del narcisista? Manco c’è bisogno di spaccarci la schiena in ufficio? Burn out pure nelle emozioni? Burnout di vita interiore, burnout auto procurato. Burnout forse un poco pure modaiolo, fatemi dire. Siamo davvero una generazione così fessa, viene da chiedersi?

Eppure non è che gli stravolgimenti emotivi siano stati così stravolgenti. Inguaiati siam sempre stati da che esiste la specie. Alle prese con: ineluttabilità della morte, del dolore, dell’horror vacui, della vita che passa, delle incertezze, dei capelli bianchi, delle infanzie difficili, dello scoprirsi indesiderabili a molti, degli amori non corrisposti, delle malattie, del futuro che non si sa, dei buchi nell’ozono, della vita che costa troppo, del mutuo, se in banca te lo danno.

E tutto questo non impediva di farcela. Di riderci sopra, per continuare a sperare. Non era il miracolo nostro, non era il sottouomo zoppicante che si faceva superuomo e sfidava tutti i numi: mi vedete? Sono vivo, anche sopra la rovina di tutto.

E per colmo di pena, un’industria culturale che di recente s’è messa a sfornare solo tarallucci al gusto veleno. Che asseconda lo sfascio di un’umanità parecchio compiaciuta, lo carezza, trova un altro problema, se lo liscia, se lo cura: ehilà ma questo dolore lo avevi considerato? Ce l’hai sto guaio? Senti come soffro!

Leggi una Sally Rooney e altre della banda e ti chiedi: ma davvero, il disagio ora è così organizzato, preciso, sistematico? Così fitto? S’infila per quelle pagine un male di vivere e pare quel silicone gonfiabile che si inietta negli impianti elettrici per togliere l’aria.

Possibile che i personaggi di ogni produzione che il dio dei creativi manda in terra non siano mai benedetti dai cinque minuti di: vabbé. Che dobbiamo fare. Storta va deritta vene (lo dicono a Napoli, mai preoccuparsi troppo dei fati avversi, si sistemeranno le cose, le cose tendono a sistemarsi perlopiù, o non saremmo neanche vivi).

Poi si chiedono perché le minchiatine come Emily in Paris danno il tutto esaurito su Netflix, e ci fanno pure l’uovo di Pasqua al supermercato. Perché finalmente mezz’ora di tregua dai canti funebri in questa casa.

Il finalino della predica è che il lieto fine facilone di qualche anno fa sarà implausibile quanto vogliamo, ma pure questa mosceria afflitta che c’è presa, quest’amarezza ostentata, il lutto continuo non è che faccia meno ridere.