Il giorno in cui ho deciso di fare coming out con mia mamma

Il giorno in cui ho deciso di fare coming out con mia mamma stavo guardando Tuo, Simon, un film che parla di un adolescente gay e dei suoi problemi a dichiararsi. A pensarci ora, non era poi un gran film, ma mi aveva commosso molto. Avevo 15 anni e ormai era già da due anni almeno che sapevo che mi piacevano le ragazze. Lo avevo capito a 12-13 anni: navigando su Reddit e su Instagram avevo visto i racconti di ragazze che dicevano di essere omosessuali e allora ho capito che quello che provavo io aveva un nome. A me piace dire che sono lesbica: è una specie di atto politico. So che purtroppo oggi la parola lesbica è associata al porno. Ma io voglio riappropriarmi di questo termine: quando lo uso è come se prendessi una posizione. Dire “Io sono lesbica” è come dire “Io non sono nient’altro per te: non sono un oggetto sessuale, non sono una fantasia, non sono una persona che puoi giudicare”. Anzi sono io che ti giudico per come reagisci alla mia notizia. A volte sento alcuni amici della mamma che fanno le solite battute sulle persone gay, e io gli dico: “Cerchiamo di non alimentare gli stereotipi, cerchiamo di non generalizzare”. Loro si difendono, dicono che sono solo battute. A parte che le battute a volte fanno male, ma che senso scherzare su una cosa che una persona non può controllare? Sarebbe come dire: “Ah che ridere, quella è bionda, quella ha le unghie lunghe. A quella piacciono le donne. Stessa cosa”.

A me piace dire che sono lesbica: è una specie di atto politico

Comunque, tornando al mio coming out, il mio primissimo l’avevo fatto con i miei compagni di classe: faccio il liceo artistico e una volta era venuto fuori perché avevo detto che una ragazza era bella. Ma del resto, un sacco di miei compagni sono Lgbt: per quelli della mia età è una cosa normale, è come uno è e basta. Sapevo anche che per mia mamma la cosa non sarebbe stata un problema. Ne ero sicura al cento per cento. Anche per mio papà sarebbe stato ok. Per come mi hanno cresciuta, per le cose che dicono e che fanno, sapevo che per loro sarebbe andato bene. Eppure avevo una paura matta a dirglielo, non sapevo da dove iniziare. Così ho pensato di farle vedere quel film. Non avevo calcolato che nel momento clou mi sarei commossa di nuovo: mentre il protagonista faceva il suo coming out, io sono scoppiata a piangere, mi sono girata verso di lei e le ho detto una cosa stupida tipo: “Mamma va bene se mi piacciono anche le ragazze?”. Mi ha abbracciata, mi ha detto che andava bene, certo, e che era bello che scoprissi tutte le parti di me stessa che mi rendevano felice. Sarebbe andata bene in qualsiasi modo. Da allora ne parliamo sempre, è una cosa che non è mai finita. Mi chiede chi mi piace, e scherzando mi dice che certamente le femmine sono meglio dei maschi, ma che le stronze le incontrerò comunque. Da qualche settimana mi sono fidanzata con una ragazza di Torino: ci siamo conosciute quest’estate e da allora ci sentiamo ogni giorno ma la scintilla è scattata solo quest’autunno. Non ci siamo più viste per via del lockdown, ma ci siamo dette che ci piacciamo. E subito mia mamma ha voluto sapere chi era, da che famiglia veniva, se è brava a scuola, eccetera. Aspetto che finisca questa pandemia per presentargliela di persona.

Al, 17 anni, studentessa

Quella volta che mia figlia mi ha detto che era omosessuale

Me la ricordo bene e me la ricorderò per sempre quella volta in cui mia figlia mi ha detto che era omosessuale. È stato un momento così dolce. Stavamo guardando la tv, non ricordo bene cosa, un film credo. Ricordo che eravamo abbracciate sul divano, una cosa che ormai succedeva così di rado con lei che aveva 15 anni, e io ero felice di godermi la mia bambina. Forse il film ha dato uno spunto, fatto sta che a una certo punto scoppia a piangere e mi chiede: “Mamma, ma tu mi vorresti bene lo stesso se a me piacessero anche le ragazze?”. Era anni che lo pensavo, aspettavo che me lo dicesse. In quella richiesta di amore incondizionato ci ho visto così tante cose. Sono scoppiata a piangere, l’ho abbracciata e l’ho rassicurata: mai, mai, mai, nella vita avrebbe dovuto avere il timore che io e il suo papà la potessimo non amare. Per un genitore non importa chi ti piace, importa chi sei tu. È lei che mi sta educando a non etichettare persone e situazioni. Da allora ne parliamo sempre. L’essere in terapia mi ha aiutato: mi son fatta consigliare, e ho capito che ero già sulla buona strada. Ho pensato a me alla sua età: amavo così tanto le mie amiche che forse, se avessi avuto le parole per dirlo, mi sarei data anche io la chance di essere lesbica, come fanno i ragazzi oggi, ed è bellissimo. Ma negli Anni Ottanta non funzionava così.

Per un genitore non importa chi ti piace, importa chi sei tu.

A volte io e il suo papà (siamo separati da tanti anni, lui fa l’insegnante e siamo totalmente in sintonia su questo argomento) ci diciamo che forse arriveranno momenti difficili e che dovremo sostenerla. Quando ci fu il famigerato family day di Verona, nel marzo del 2019, l’ho vista singhiozzare di fronte al telegiornale: c’erano persone che dicevano che gli omosessuali hanno il diavolo dentro. E anche se lei non è sciocca e sa benissimo che quelle sono persone malate di mente, non riusciva a non piangere. Si arrabbiava con se stessa, e piangeva. Non si sa cosa succederà, come crescerà Al, ma io e suo papà ci saremo sempre: quello che possiamo fare è aiutarla ad avere sufficiente sicurezza in se stessa perché lei abbia gli strumenti per essere quello che vorrà essere. Noi genitori non possiamo fare altro: crescere i nostri figli con autostima e cultura e strumenti perché poi se la cavino da soli. Possiamo anche cercare di cambiare un po’ le persone: noi cinquantenni, che siamo cresciuti in un’epoca in cui il bullismo era normale, fatichiamo ad abbandonare alcuni modi di fare, alcune battute, le allusioni sessuali. A me han sempre dato fastidio, ora ancora di più. Quando sento certe battute, le ascolto con le orecchie di mia figlia e mi vergogno tantissimo. Lo dico, mi rispondono che sono battute, mi dicono di lasciar correre. Ma io non mollo, non mollo mai.

A., 48 anni, mamma di Al


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