L'avevamo inserito nei migliori dieci album del 2023 perché «Spira è un viaggio mistico»: Daniela Pes, artista, produttrice, strumentista sarda, porta nel suo album i suoni dal profondo della terra. È quello che mancava, fino ad oggi, nel panorama musicale italiano e noi ne godiamo mentre, grazie a lei, ci riconnettiamo alle nostre radici con i suoi canti ancestrali. Spira è un lavoro complesso, è l'atmosfera delle tradizioni antiche che rivivono nell'elettronica, tra i suoni della vita domestica di un paese della Gallura e i sussurri delle streghe.

Ne abbiamo parlato con l'artista a pochi giorni dal ritiro del premio come migliore artista per CIAO Rassegna LUCIO DALLA, per le forme innovative di musica e creatività, che si terrà a Bologna il 4 e 5 marzo 2024.

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Quanto c'è della tua terra in Spira?

«Le mie radici sono importanti, direi presentissime per la conseguenza diretta della mia vita. Ho sempre vissuto in Sardegna, che esiste nel mio lavoro, nella mia voce, nel mio modo di scrivere e di approcciarmi alla musica in maniera incontaminata. Di certo questa vita lontana da circuiti musicali altri mi ha permesso di cercare qualcosa che sentivo dentro senza troppe contaminazioni».

Dici di sentirti lontana da tanti artisti, ti senti un'isola nel panorama musicale di oggi? Dove ti collochi?

«Non riesco a inserirmi in un luogo preciso del mercato musicale italiano. Sento di pensare alla musica e di avere un rapporto con lei che non vedo tantissimo in giro, così viscerale, puro, sincero, onesto, e ho trovato in Jacopo (Incani, nome d'arte Iononsonouncane, produttore, ndr) una persona che viveva il progetto come me. Oltre al fatto che è sardo, un valore aggiunto per me perché ha il mio stesso storico. E come me, anche lui vive la musica come una questione di vita o di morte. Se non potessi comporre la mia musica mi sentirei disarmata. Volevo portare avanti qualcosa di grande che non riuscivo ad esternare nel miglior modo possibile e appoggiandomi a lui ho fatto la scelta più giusta di tutte».

E come nasce Spira?

«È la mia prima dichiarazione di esistenza seria perché l'ho pensato, l'ho ideato da sola, ho avuto questa esigenza forte e sono partita senza nessun attorno. Ho preprodotto tutte le mie idee da sola con Ableton, imparando ad usare bene un software musicale che mi potesse concedere di appuntare l'arrangiamento. Nasce dalla mia esigenza di dover fare qualcosa che segnasse prima di tutto me, ed è arrivato dopo anni di collaborazioni con tanti musicisti sardi. Ho sentito il bisogno di approdare da qualche parte con un percorso profondo di scrittura. L'idea di disco è venuta dopo che io stessa mi sono resa conto di avere delle cose davvero da dire».

I testi in sardo delle canzoni dell'album non raccontano qualcosa di particolare, dipingi dei quadri. Come mai?

«Non c'è la volontà di raccontare una storia specifica, no, tutt'altro. Essendo basato tutto sul suono, sulla bellezza musicale nel complesso tra voce e strumenti, c'è la voglia di andare oltre il senso descrittivo. Ognuno ha davanti a sé il proprio paesaggio, e il brano accompagna, allude. Mi sono chiesta tante volte come fare a comunicare qualcosa che andasse oltre e ho trovato la chiave partendo dal lavoro dal quale provenivo: da giovanissima ho musicato le poesie di un poeta del mio paese che scriveva in gallurese arcaico. Per questo avevo perfettamente tra le mani le sonorità, la musicalità del dialetto mi ha stimolata. Ecco quindi che i testi di Spira sono la sintesi di fonemi, sillabe inventate da me con alcune radici in gallurese che suonavano molto bene alle mie orecchie».

Le contaminazioni sono tantissime.

«Spira si lega molto al mio percorso jazz quindi al timbro, al suono, all'improvvisazione, ma anche agli ascolti che ho fatto: il cantautorato italiano con cui sono cresciuta, musica internazionale strumentale armena, israeliana, artisti che utilizzano la voce come strumento, caratteristica del jazz. Insomma, nasce da una sintesi di tutto ciò che ho vissuto prima».

Hai raccolto molta critica positiva e premi intorno a questo lavoro, tra cui la Targa Tenco e il riconoscimento come migliore autrice nella rassegna Ciao, Lucio Dalla. Ti saresti mai aspettata questa risposta da un lavoro così sperimentale?

«No, assolutamente no. L'unica certezza che avevo era quella di avere tra le mani una cosa molto grande per me. Niente e nessuno ci avrebbe potuto garantire o suggerire che sarebbe stato poi tutto così fluido, accessibile e diretto perché alla fine, come dici bene tu, è abbastanza fuori le righe per la scena musicale italiana. Per la complessità del disco non era affatto scontato che arrivasse a così tante persone».

Abbiamo tra l'altro appena visto Mahmood sul palco dell'Ariston insieme ai Tenores di Bitti sulle note di "Com'è profondo il mare".

«Penso che sia stato un gesto grande, che rende tanto onore anche alla cultura, alla tradizione sarda. A maggior ragione se viene da parte di un artista immerso nel mondo popolare italiano mainstream. È una scelta che ho apprezzato tanto, e di grande gusto anche eseguire uno dei brani più clamorosi di Dalla. La combo è stata devastante».

Fra poco ritirerai il premio come migliore artista all'interno di Ciao, la rassegna Lucio Dalla, che arriva tra l'altro insieme a pari merito con Calcutta. Come vedi il tuo progetto affiancato a un altro artista?

«Non ho percepito il parimerito perché siamo vicini in qualche modo, o abbiamo fatto qualcosa di simile. Mi sento molto distante da tutto ciò, ma molto felice di essere arrivata agli occhi e alle penne di un certo livello con qualcosa di totalmente mio, con delle sonorità che sentivo da bambina in casa. Questo mi emoziona. Anche quando sono sul palco avverto questo privilegio di cantare in una lingua che per me è casa e di vedere che le persone lo accolgono e se lo godono. Più che orgoglio, più che stupore, è proprio emozione. Tendo sempre a fare ciò che mi lascia serena, che in questo caso è legarmi alla musica, dove mi sento al sicuro. E mi emoziono perché nel produrre il disco so di aver pensato prima a me, di aver avuto cura prima di tutto di me stessa.

Il fatto di scrivere in modo così viscerale della tua terra ti fa sentire ancora più al sicuro?

«Certo, perché vado a tastare dei terreni o dei codici che mi appartengono. Sono partita proprio da me stessa, dalla mia storia, stando ben attenta a non perderlo mai e a dichiarare sempre la verità in quello che faccio».