Aveva vent’anni quando gli è esploso il successo in mano mettendo in musica la sua urgenza di raccontarsi, per cambiare la sua realtà e uscire dal quartiere. A sei anni di distanza Capo Plaza, all’anagrafe Luca D’Orso, si guarda indietro ed è fiero di sé, della sua determinazione, con la consapevolezza di non avere avuto la certezza di potercela fare, ma di non aver avuto alternativa se non provarci.

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Ce l'ha fatta: 61 dischi di platino e 30 oro con i brani dei suoi primi due album 20 e Plaza e ora 17 nuove tracce nel nuovo album Ferite (Warner Music Italy) in cui si racconta con ancor più sincerità, mostrando le sue fragilità, senza paura di accettare quello che fa male e lascia un segno. Anna, Annalisa, Artie5ive, Lazza, Mahmood, Tedua e Tony Boy le collaborazioni, che mostrano i diversi lati di sé, gli stili che si fondono, la voglia di continuare a sperimentare «perché è solo il mio terzo disco e io ho ancora tutto da dimostrare». Trap, urban, pop per raccontare il suo diventare adulto, facendo i conti con se stesso, le sue paure, il terrore della morte, la fatica della solitudine, i suoi demoni più scuri che trovano la luce nella musica, stando bene quando scrive in studio o in una serata a casa sul divano, scoprendo che non c’è proprio niente che lo possa fermare finché rimane l’urgenza di buttare fuori in musica. Primo italiano ad aver realizzato un concerto su un’isola creative di Fortnite, Capo Plaza suonerà per la prima volta al Forum il prossimo 1 febbraio. Lo abbiamo incontrato.

Ci vuole coraggio a mostrare le proprie ferite?

«All’inizio il disco doveva chiamarsi Vittorie e sconfitte, si tende sempre a far vedere quanto siamo perfetti, si pensa di essere quello che si ha. Ma le storie migliori sono quelle che parlano di sconfitte, penso ai miei idoli, agli artisti o sportivi o menti creative che hanno raccontato le loro. Abbiamo tutti ferite, sconfitte. Io ho vinto nella vita, nel mio lavoro. Ma ho addosso tante ferite nella vita personale».

Il successo le guarisce?

«Il successo non è facile da gestire. Ci sono tanti tabù a riguardo, si pensa che noi artisti siamo ricchi e per questo possiamo avere problemi. Ma i soldi non risolvono i problemi. Servono psicologi o persone vicine».

Ci sono lati negativi nella fama?

«Io sono grato di tutto, ma sono timido, tendo a chiudermi. A volte non aver potuto fare le cose che un ragazzo della mia età fa, fosse anche solo andare al cinema con gli amici senza stare attento a come comportarsi non è stato facile… Mi è mancata un po’ la spensieratezza, devo stare attento sempre».

Hai paura che finisca tutto?

«Ce l’ho da sempre, e penso ce l’abbia ogni artista. Ma è uno stimolo per far sempre meglio. Non ho ancora fatto nulla, ho solo 26 anni, mi sbatto perché non finisca. Mi dedico a questo lavoro, non è solo una passione, cerco di dare sempre il massimo, cerco di far capire chi sono, quello che provo».

Qual è la tua ferita più profonda?

«Non ce ne è una in particolare. So che tutte mi hanno reso la persona che sono oggi sia quando ho alzato la coppa sia quando non mi vedeva nessuno. In amicizia ho avuto tante batoste e questo disco mi ha aiutato a superare un periodo di solitudine e riappacificarmi con me stesso, con gli altri. Ho una maggiore consapevolezza. Sono cresciuto. Non mi sento ancora uomo, ma ho stimoli diversi, mi piace musica diversa e percepisco le ferite in maniera diversa. Non punto più il dito ma cerco di capire gli altri».

Se non ci fosse la musica a curare il dolore, come lo butteresti fuori?

«Con lo sport. Lo sport è forse più importante della musica, nella mia vita. Lo seguo di più. Amo tutti gli sport, è una parte centrale per me, una fonte di ispirazione. Amo gli sportivi, mi piace conoscere le loro storie».

Crescere ti spaventa?

«Molto. Infatti mi fermerei a 26 anni. La morte è una delle mie più grandi paure. Quando penso al mio funerale prima di dormire mi blocco. Ma so che tutto nasce, cresce e muore e noi dobbiamo solo essere bravi a lasciare una traccia del percorso che abbiamo fatto. Lasciare qualcosa».

Il mondo che ci circonda ti piace?

«Non tanto. Vorrei vedere le nuove generazioni mettersi sotto per far ricredere gli adulti. La miglior cosa di questo paese siamo noi giovani, quindi perché dobbiamo buttare il nostro tempo? Spero che le nuove generazioni abbiano la lucidità, quando la vedo sono contento, ma spesso non la vedo. Viviamo in un paese che dovrebbe svecchiarsi, se guardo all’estero c’è molta più multiculturalità. Da noi no, ed è automatico rimanere indietro. Spero che qualcosa cambi e che i ragazzi possano fare qualcosa di buono, ma serve stare al passo».

Secondo te mancano modelli di riferimento?

«Non è che manchino modelli ma se vado in Francia e vedo che il rapper o l’influencer parlano di politica, vengono capiti. Viene capita la diversità, c’è il rispetto delle opinioni altrui. In Italia il rapper è messo a giro per tirare fuori la notizia. Ma le nuove generazioni si rivedono in noi, siamo il loro punto di riferimento, in classifica, se togli Sanremo, ci siamo noi. Possiamo mandare anche messaggi positivi, fare cultura. Ci sbattiamo, non c’è solo criminalità. All’estero succede, ci vuole tempo, ma spero di essere parte di questo processo».

Riesci a restare in contatto con queste nuove generazioni?

«Mi ritengo una persona molto empatica, capisco quello che succede nel mondo. Basta rimanere umili e con gli occhi aperti sul sistema, sulla società. Fa parte anche questo del lavoro di un artista, che sia rap o pop. Molto di noi vengono da un quartiere popolare e ce l’hanno fatta, ma venendo da lì ci sono gli amici che non fanno musica, sappiamo quali sono i tormenti, li abbiamo anche noi».

Cos’hai avuto in più per farcela, rispetto agli amici del quartiere?

«Dedizione. Non avevo un piano b, non vedevo altro che il rap, non mi facevo distrarre da altro. I miei amici facevano altro, io non volevo e loro per primi mi supportavano, ho sempre avuto un supporto a 360 gradi. La mia famiglia, anche quando non avevamo niente, mi ha sempre lasciato libero, con la consapevolezza di dover comunque prendere un dipoloma, perché se non fosse andato bene questo lavoro avrei dovuto essere pronto a tutto. Se a 26 anni fosse stato ancora un hobby avrei fatto altro. Ma io non volevo fosse un hobby e se ce l’ho fatta è anche grazie a Salerno, la mia città. Senza quelle radici non sarei arrivato qui».

In questo disco per la prima volta collabori con due donne.

«La figura della donna nel rap in Italia e nel mondo è finalmente cresciuta. Io sono cresciuto tra donne, ho avuto tante relazioni, le donne sono la parte centrale della mia vita, le considero il cervello del mondo, noi uomini siamo il fisico. Finalmente si prendono lo spazio».

Donne nella tua vita, è difficile starti accanto?

«Vivo le relazioni come chiunque, certo per chi vive con un artista è più difficile, serve capire, serve essere abbastanza maturo per capire cosa chi ti sta accanto deve buttare giù. Se amo una persona non ho bisogno di averne altre 150, non voglio una tipa a sera, sbaglierei come uomo. Se pensi di ferire l’altra persona ti devi fermare».

Che tipo sei quando sei lontano dai riflettori?

«Io faccio una vita tranquilla, non vado mai in discoteca, non mi piace. Non mi piacciono i posti affollati, al massimo vado allo stadio, agli eventi sportivi. Vado in palestra, in studio e torno a casa. Sono un tipo silenzioso, introverso, mi faccio molto i fatti miei. Tant’è che preferisco stare in studio, mi piace fare concerti ma li vivo con ansia».

Il giudizio esterno lo temi?

«Non leggo manco più i commenti. Ho la pelle antiproiettile per sanità mentale. Ora so bene che c’è chi mi capisce, ma so anche che c’è chi mi critica. Sono consapevole di quello che sono».

A Sanremo ci andresti?

«Non ora, ma non lo escludo. Lo guardo sempre, ma per ora non ci ho pensato».

In "Memories" dici che è più importante guardare al futuro che al passato, cosa c’è nel tuo?

«Non sono uno che fa progetti. Spingo fino a quando non finisce la benzina»

E se finisce?

«Non finirà mai. Finché c’è la salute, mia e della mia famiglia, non c’è niente che possa farmi smettere».